Yemen L'Osservatore Romano: Focus/Yemen L'Osservatore Romano

112 yemen- Origini e prospettive del conflitto dimenticato dai media. Il dramma yemenita (di ROSARIO CAPOMASI)
- Le vestigia della presenza cattolica in un paese martoriato. Quel Cristo che continua a benedire il mare
- Intervista con il vicario apostolico dell’Arabia del Sud. Non dimenticateli (di MARCO BELLIZI)
- Così l’Onu fotografa le ricadute del conflitto sulla popolazione civile. La peggiore crisi umanitaria nel mondo
- Attese e limiti del processo di pace. Una complessa rete di poteri e di interessi (di LUCA POSSATI)
***
 
Origini e prospettive del conflitto dimenticato dai media
Il dramma yemenita
di Rosario Capomasi
 
Hodeidah, città portuale yemenita affacciata sul mar Rosso, ai più non dice niente. Ma, in una nazione martoriata da un conflitto dimenticato potrebbe rappresentare il grimaldello per una cruciale inversione di tendenza. Lo scorso 8 febbraio le parti in conflitto, esponenti delle milizie huthi e governo yemenita, con la mediazione dell’Onu hanno raggiunto un accordo preliminare sulla gestione del porto, dal quale passa circa l’80 per cento degli aiuti alimentari, per garantire l’accesso ai granai, necessari a sfamare tre milioni e mezzo di persone stremate da fame, malattie, colera ed esplosioni pressoché ininterrotte. Pochi giorni dopo l’inviato speciale dell’Onu, Martin Griffiths, ha sottolineato l’importanza di rendere accessibili i silos per evitare il deteriorarsi delle derrate alimentari, bloccate da cinque mesi. L’accordo raggiunto faciliterà secondo il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres anche l’apertura di corridoi umanitari e operazioni di bonifica dalle mine. Si tenta, dunque, di rendere concreti alcuni punti dei negoziati iniziati nel dicembre scorso nella cittadina svedese di Rimbo, quando il capo negoziatore degli huthi Mohammed Abdelsalam e il ministro degli esteri yemenita Khaled Al-Yemani si sono incontrati dopo un silenzio che durava da quasi tre anni. Resta insoluta la questione dell’aeroporto di Sana’a, la capitale: da due anni sotto il controllo dei ribelli, subisce il blocco del traffico aereo a opera della coalizione che sostiene il governo. Un dramma infinito, richiamato all’attenzione mondiale dalle parole del Pontefice nell’ultimo accorato appello all’Angelus del 3 febbraio, che sembra non trovare sbocchi in un paese un tempo fiore all'occhiello del Medio oriente, conosciuto fin dal secondo millennio prima dell’era cristiana per la ricchezza del suolo e dei corsi d’acqua, l’Arabia felix secondo la Roma imperiale per via dei suoi intensi traffici commerciali, governato per secoli da dinastie locali, come quella rasulide, che lo arricchirono culturalmente e architettonicamente, e capace di mantenere una sua stabilità economica anche in seguito a eventi potenzialmente penalizzanti: l’annessione all’impero ottomano, la quasi trentennale occupazione britannica del porto di Aden e la separazione in due stati poi riunificatisi nel 1990. Da quel momento in poi, la nuova nazione iniziò a dirigersi lentamente e inesorabilmente verso la strada dell’instabilità permanente, dimostrandosi fragilissima sotto le spinte separatiste di gruppi di potere che si identificavano su base tribale, dando luogo a frequenti scontri armati tra il nord e il sud del paese. Il conflitto attuale, deflagrato nel 2014, ha le sue origini dieci anni prima, quando il gruppo zaydita “Allah Ansar” (gli huthi) lanciò un’insurrezione contro il governo yemenita. Da allora si sono succeduti gli scontri con gli huthi e l’esercito del presidente Ali Abdullah Saleh; a questa situazione instabile si aggiunse, nel 2011, l’arrivo nello Yemen di movimenti di protesta popolare contro i regimi autoritari che si svilupparono nei paesi del Maghreb e del Medio oriente. Gli huthi, in particolare, dal 1992 (anno della loro nascita come “Gioventù credente”) a oggi si sono trasformati sempre più in un vero e proprio esercito professionista. In sostanza quella che avrebbe dovuto essere una transizione politica in grado di portare stabilità dopo la primavera araba costrinse invece il presidente Ali Abdullah Saleh, al potere da oltre trent’anni, a dare le dimissioni e a consegnare lo scettro al suo vice, Abd Rabbo Mansour Hadi. La debolezza di quest’ultimo permise ai ribelli huthi di prendere rapidamente il controllo di molte aree del paese, compresa la capitale Sana’a, grazie anche all’appoggio dei miliziani dell’ex presidente Saleh, e costringendo il suo vice a fuggire ad Aden dopo un tentativo di golpe nel 2015. Poco dopo, una coalizione internazionale a guida saudita intervenne militarmente per rimettere al potere Hadi. Oggi lo Yemen, con la Siria e l’Iraq, rappresenta una delle ferite più profonde del Medio oriente.
 
***
 
Le vestigia della presenza cattolica in un paese martoriato
Quel Cristo che continua a benedire il mare
 
Sono le chiese dello Yemen le prime ad attestare gli insediamenti cristiani nella penisola arabica. Con gli eventi, molti dei quali bellici, che si sono succeduti, alcune furono abbandonate, altre sono cadute in rovina, altre ancora date alle fiamme o distrutte dal fuoco incrociato delle parti in conflitto. Tutto è iniziato nello Yemen. E molto rischia di finire. Al momento, quattro parrocchie sono nell’elenco ufficiale delle chiese cattoliche. Sana’a, la capitale nelle mani dei ribelli huthi, e Aden, sede del governo, nel sud, hanno ciascuna una chiesa cattolica attualmente abbandonata. Le porte di metallo arrugginite della vecchia cattedrale di San Francesco di Assisi, nel quartiere Tawahi di Aden, testimonia l’agenzia swissinfo.ch, sono state divelte e giacciono a terra piene di proiettili. “Vietato entrare” è scritto in nero sul muro del recinto che circonda la costruzione, accanto a un versetto del Corano: “Per te la tua religione, per me la mia religione”. In cima all’edificio c’è una statua di Gesù Cristo senza testa e con le braccia tese a benedire il mare. Era una chiesa attiva durante il protettorato britannico e fino all’arrivo dei ribelli, nel 2015, la gente aveva continuato a frequentarla. Nello stesso anno un’altra chiesa nel quartiere di Mualla ad Aden, già abbandonata, è saltata in aria in un attacco che non è stato rivendicato. Un’avvisaglia di quello che sarebbe accaduto l’anno successivo, quando, nella stessa città, sedici persone sono state uccise in una casa per anziani cattolica. Tra loro quattro suore delle missionarie della carità. In questa occasione fu rapito padre Tom Uzhunnalil, poi rilasciato dalle forze del sedicente stato islamico nel 2017. Eppure, per secoli lo Yemen era stato un esempio felice di diversità religiosa con la sua minoranza ismaelita (una corrente minoritaria degli sciiti islamici), baha’i ed ebrei. La presenza di cattolici nello Yemen risale al 1880. Con la rivoluzione marxista del 1967 nel sud dello Yemen, i sacerdoti fuggirono in Bahrain e negli Emirati Arabi Uniti. Prima della guerra la comunità cattolica contava circa 3000 fedeli, tutti stranieri, presenti soprattutto a Sana’a ma anche ad Aden, Taiz e Hodeidah, che hanno dovuto lasciare il paese. Al momento non c’è nessun sacerdote; ci sono soltanto le missionarie della carità, presenti nella capitale. Sui due fronti principali del conflitto che imperversa nel paese sorgono due chiese cattoliche. Una si trova a Hodeida, la città sulle rive del mar Rosso occupata dai ribelli, e l’altra a Taiz, nel sudovest, sotto assedio degli stessi huthi. Per mesi Hodeida è stata il fronte principale della guerra, a causa dell’offensiva condotta dalle forze filogovernative. La chiesa del Sacro Cuore è nascosta al piano terra di un edificio con finestre bianche. Che attendono di poter essere aperte alla luce del sole.
 
***
Intervista con il vicario apostolico dell’Arabia del Sud
Non dimenticateli
di Marco Bellizi
«Non dimenticateli»: è questo il messaggio che in sintesi il vicario apostolico dell’Arabia del Sud, Paul Hinder, lancia alla comunità internazionale, all’opinione pubblica occidentale, a quanti hanno la possibilità di fare qualcosa per restituire dignità a una popolazione piegata da condizioni di vita drammatiche. Il presule, nel cui vicariato rientra lo Yemen, risiede ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti. Da qui cerca di assistere la comunità cattolica ancora presente nel paese, sebbene, a causa della guerra, le comunicazioni siano quasi del tutto compromesse.
 
Che notizie ha della situazione nel paese?
 
Sono poche le informazioni che mi arrivano, perché la comunicazione è difficile e la gente non parla apertamente al telefono o attraverso internet. Ho avuto l’occasione di dialogare con un gruppo di cristiani yemeniti. Non voglio parlarne però per non metterli a maggiore rischio.
 
Perché la situazione nello Yemen appare così difficile da affrontare?
 
Il conflitto ha una storia lunga con molti partiti che lungo la strada hanno cambiato più di una volta le alleanze. L’intervento di diversi poteri esterni invece di condurre a una soluzione ha piuttosto approfondito il conflitto. Ora ci vuole tempo, pazienza e immensa abilità diplomatica per mettere intorno al tavolo i belligeranti. Il fatto che molti in tutto il mondo, approfittino del conflitto, non facilita le trattative.
 
Cosa potrebbe fare la comunità internazionale?
 
Una possibile strada potrebbe essere quella di tornare, nei negoziati, a circa dieci anni fa, quando si era elaborato un progetto di Costituzione di tipo federativo che avrebbe dato alle diverse parti una certa autonomia ma preservando l’unità dello Yemen. Se questo progetto non si realizzasse, temo una frammentazione del paese.
 
Quali sono le maggiori responsabilità dell’Occidente in questo conflitto?
 
Chi può sapere chi e quale responsabilità ha? Sicuramente, il disinteresse durante gli anni non ha aiutato. La politica estera di alcuni paesi non è stata sempre coerente. Troppi credevano che il conflitto si risolvesse con le armi. Sin dall’inizio l’illusione è stata questa. Ora lo sta verificando anche chi ha deciso di intervenire quattro anni fa.
 
Che prospettive ci sono per il futuro del cristianesimo?
 
Il cristianesimo in questo paese è sempre stato, numericamente parlando, molto debole. Ora si tratta di sopravvivenza. Se la società yemenita non riesce a trasformarsi in una società tollerante, sarà difficile per i cristiani rimanere nel paese. Troppi di loro sono regolarmente esposti a forti pressioni per convertirsi all’islam.
 
C’è un appello che vuole fare per la popolazione yemenita?
 
L’appello principale è: non dimenticate lo Yemen. Il Santo Padre lo ha ricordato prima della sua partenza per Abu Dhabi. Prima di tutto c’è la preghiera. Poi, si tratta della ristrutturazione del paese, parzialmente distrutto. Gli yemeniti sono un popolo orgoglioso e di cultura antichissima. Si tratta di aiutare una nazione a ritrovare la sua dignità.
 
***
 
Così l’Onu fotografa le ricadute del conflitto sulla popolazione civile
La peggiore crisi umanitaria nel mondo
 
Secondo il segretario generale delle Nazioni Unite, António Guterres, quella in Yemen è «la peggiore crisi umanitaria del mondo». Shabia Mantoo, portavoce dell’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati), lavora a stretto contatto con gli operatori umanitari attivi nel paese: a lei abbiamo chiesto di tracciare un quadro generale della situazione.
 
Che cosa sta accadendo alla popolazione civile nello Yemen?
 
Ventiquattro milioni di persone, ovvero l’ottanta per cento della popolazione, sono bisognose di assistenza e protezione. È stato chiesto un tributo brutale alla popolazione: dislocamento interno, fame di massa ed epidemie di malattie trasmissibili e questo nel quadro di un rapido deterioramento economico e di una grave inabilità dei servizi di base, delle infrastrutture e delle istituzioni. Più di tre milioni sono state costrette a fuggire dalle proprie case in cerca di sicurezza e decine e decine di migliaia di civili sono stati uccisi o feriti. Soltanto una soluzione politica pacifica può mettere fine alla crisi e impedire che i bisogni umanitari peggiorino. Chiediamo a tutti di fare il massimo per proteggere i civili e facilitare un rapido passaggio degli aiuti umanitari, senza ostacoli, in tutto il paese.
 
Che cosa sta facendo l’Unhcr sul terreno per aiutare la popolazione?
 
Anche se siamo presenti nello Yemen da molti anni, dopo lo scoppio del conflitto abbiamo dovuto aumentare notevolmente le nostre operazioni per rispondere a una crisi umanitaria senza precedenti. Al momento forniamo assistenza a tutti gli sfollati a causa della guerra: più di tre milioni di yemeniti sono stati costretti a lasciare le loro case, e oltre 270.000 rifugiati e richiedenti asilo esterni, principalmente dalla Somalia, restano al momento particolarmente vulnerabili. Gli sfollati interni yemeniti vivono in condizioni molto basiche, senza alcuna protezione. Sono costretti a contare sulla generosità delle comunità locali. Abbiamo centri dove gli sfollati possono ricevere supporto medico, assistenza legale e psicologica. L’anno scorso abbiamo fornito aiuti a circa 1,2 milioni di sfollati interni in ogni regione del paese. (luca possati)
 
***
 
Attese e limiti del processo di pace
Una complessa rete di poteri e di interessi
di Luca Possati
 
Il processo di pace nello Yemen ha conosciuto negli ultimi mesi una forte accelerazione ma il futuro della popolazione civile appare ancora in bilico. Ne abbiamo parlato con Eleonora Ardemagni, ricercatrice dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), specializzata in Medio oriente e Asia.
 
Quali sono i punti nodali dell’intesa raggiunta in Svezia?
 
I punti principali sono quattro: il cessate il fuoco immediato per Hodeidah e l’omonimo governatorato, lo scambio di 15 mila prigionieri, la costituzione di una commissione per sbloccare l’assedio della città di Taiz e l’impegno a continuare senza condizioni le consultazioni alla fine di gennaio 2019. Tuttavia, l’applicazione degli accordi procede al rallentatore e i termini previsti sono già ampiamente scaduti, mentre le parti belligeranti si rinfacciano continue violazioni della tregua.
 
Qual è il punto più spinoso dell'accordo?
 
Il punto più spinoso è chi debba gestire la sicurezza nella città di Hodeidah e nei vicini centri portuali di Ras Isa e Al Salif: il testo prevede la «responsabilità di forze di sicurezza locali in accordo con la legge yemenita», ma l’identità delle “forze di sicurezza locali” rimane indefinita e le parti hanno interpretazioni contrastanti. La formula diplomatica è ambigua e ora si fatica a tradurla operativamente sul campo: la missione di sostegno dell’Onu agli accordi, autorizzata dal Consiglio di sicurezza dell’Onu lo scorso 16 gennaio, per monitorare il cessate il fuoco, ha un compito quanto mai arduo.
 
I trafficanti di armi, stanno facendo affari con entrambe le parti in causa. Il cammino della pace è così difficile perché lo Yemen è il più grande mercato di armi al mondo?
 
Certo, le armi rappresentano un problema, ma ciò è dovuto in primo luogo allo sgretolamento delle forze armate yemenite, quindi dal fatto che non vi sia il monopolio dell’uso della forza. Di fatto, vi sono oggi tre governi nello Yemen, quello riconosciuto del presidente Hadi, quello parallelo degli insorti huthi a Sana’a e il Consiglio di transizione del sud basato ad Aden e sostenitore dell’indipendenza per le regioni meridionali. L’esercito non esiste più e i suoi segmenti, alcuni schierati con gli huthi, altri con le forze filo-governative, combattono al fianco di milizie locali autonome e slegate dai tre centri di potere, forgiando micro-alleanze fluide basate su interessi territoriali-pragmatici e sempre meno ideologici. In più, queste milizie sono attivamente sostenute, con diversi gradi di coinvolgimento, da potenze straniere. Quindi, se l’intervento militare contro gli huthi si fermasse, sarebbe un grande passo in avanti per la pace in Yemen. Tuttavia, ciò non fermerebbe le tante “piccole guerre” che si combattono sul territorio per interessi tribali e/o locali, in un contesto di crescente frammentazione della sovranità statuale.
 
Quanto contano le altre crisi in Medio oriente — la guerra in Siria, il contenzioso israelo-palestinese, le tensioni sul nucleare iraniano — sulle dinamiche del conflitto yemenita?
 
Nel conflitto in Yemen, che è uno scontro interno per il potere e le risorse, pesano due fattori regionali: l’alleanza acritica dell’amministrazione Trump con Arabia Saudita ed Emirati Arabi e, specularmente, l’ostilità della Casa Bianca nei confronti del regime di Teheran, sullo sfondo della rivalità mediorientale fra sauditi e iraniani. Significa che gli Stati Uniti hanno finora rinunciato a esercitare la dovuta pressione diplomatica su Riad poiché i sauditi hanno presentato, sin dal 2015, l’intervento militare in Yemen come un’operazione di contrasto a milizie sostenute da Teheran (gli huthi). Gli huthi sono sciiti come gli iraniani, ma sono zaiditi, non duodecimani e, soprattutto, perseguono un’agenda di politica interna finalizzata all’autonomia e alle risorse per le terre del nord dello Yemen: non sono proxies dell’Iran, anche se ricevono sostegno militare dalla Repubblica islamica. Il paradosso è che dal 2015 a oggi, la relazione politica e militare tra gli huthi e l’Iran si è fatta più stretta: dunque, la strategia saudita ha sortito l’effetto contrario di quello sperato.
 
Il fenomeno nuovo e preoccupante è la crescita del salafismo armato nel sud dello Yemen, nonché l’intreccio fra le istanze secessioniste e il pensiero salafita: tracciare i confini tra gruppi salafiti e jihadisti diventa sempre più difficile e questo avrà ricadute sulla fase di post-conflitto.
 
L'Osservatore Romano, 15-16 febbraio 2019