Il sorriso degli angeli sui volti di bambini ebrei, cristiani e musulmani

bambini haifa af27ead1a8c4d1f86c5b05fd44466855Viaggio tra i piccoli ospiti della casa delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli ad Haifa ·

Puoi vedere i sorrisi degli angeli sui volti dei bambini in una terra dilaniata dal rancore e dall’odio.

Qualche tempo fa, come giornalista di Radio vaticana inviata per un’inchiesta sul lavoro poco conosciuto delle donne “nascoste” della Chiesa, ho visitato una piccola comunità formata da quattro suore cattoliche nella città di Haifa, a nord d’Israele, la cui casa per bambini con disabilità gravi riunisce ebrei, arabi musulmani, cristiani e drusi, che superano le barriere della diffidenza nella loro sofferenza comune e nel loro amore per un figlio malato.

A colpirmi sono state le sedie a rotelle. Erano tutte allineate in file ordinate e avevano sedute piccole e poggiatesta bassi: una fila di sedie vuote correva lungo la sala di un’ala e un’altra fila lungo il corridoio opposto.

Ero lì in piedi, in una serata d’autunno con 32 gradi all’ombra, al centro di un istituto a forma di “U” che accoglieva bambini con gravi disabilità gestito delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli. Il convento di pietra di origine araba, costruito 125 anni fa, ospita circa sessanta bambini, la maggior parte dei quali hanno disabilità così gravi da non poter camminare e neppure girarsi, e tanto meno parlare e mangiare da soli.

Dopo una cena frugale a base d’insalata araba, formaggio e frutta, la suora libanese Simone mi conduce a vedere i bambini, già a letto per la notte. «Ti porto prima a vedere i più piccoli» mi ha detto. Appena le porte di vetro si aprono veniamo accolte da una folata di aria fredda della climatizzazione interna. Mentre passiamo vedo una bambina con un grande sorriso sulle labbra. I suoi occhi sono chiusi.

«Quando sente la mia voce, inizia a sorridere, sorride per davvero!» dice raggiante suor Simone. A me sembra sorpresa, ma non dovrebbe esserlo. Nei tre giorni che ho trascorso nella casa del Sacro Cuore ho trovato più amore di quello riunito nella maggior parte delle case in un’intera vita.

In questa stanza ci sono tre bambini piccoli con un’infermiera. C’è una bambina minuta dai capelli ricci seduta su una sedia alta, non dimostra più di due anni. Tiene la testa con le mani e dondola pericolosamente avanti e indietro. «Non si farà male?» chiedo preoccupata. «Oh no! Non lo permetteremo», mi assicura suor Simone.

Un bambino arabo dalla bellezza mozzafiato e dai soffici capelli ondulati, è steso su un lettino lì accanto, con i suoi grandi occhi da cerbiatto che ci seguono, ma comunque non vedono. Sembra un piccolo angelo di tre anni. Suor Simone solleva il lenzuolo e vedo un sondino gastrico collegato al suo stomaco. Molti di questi bambini vengono alimentati così.

Mi spiega: «La madre gli ha dato un pezzetto di mela da mangiare. Quando ha visto il padre tornare a casa dal lavoro si è emozionato». Era così emozionato che ha sussultato di gioia e il pezzetto di mela gli è andato di traverso bloccando il passaggio dell’aria ai polmoni. È accaduto così rapidamente da procurargli un danno celebrale permanente all’età di soli 9 mesi.

«Questa storia è altrettanto drammatica», mi dice la suora mentre mi conduce verso un bambino di tre mesi adagiato su un lettino e collegato a una sonda gastrica. Dal suo naso-patatina escono sondini per l’ossigeno.

«Sua madre ha avuto un travaglio lungo e difficile», mi spiega. «Lei e suo marito avevano cercato per anni di avere un bambino, seguendo anche un trattamento per la fertilità. Era terrorizzata dall’idea di perdere il bambino ma i dottori hanno effettuato troppo tardi il taglio cesareo. Il bambino non aveva ricevuto sufficiente ossigeno».

Mi dice anche che il padre è un ebreo ortodosso molto religioso e aveva dubbi ad affidare suo figlio a un istituto cattolico. «Il dottore gli ha detto che se volevano affidare il figlio a un istituto, preferiva che fosse la Maison du Sacre Coeur, la nostra casa», mi spiega suor Simone. «Hanno detto di no, che era un istituto cattolico, e che preferivano un istituto ebraico. Ma il dottore ha risposto: “Andate a vederlo e poi decidete”. Quando sono venuti, hanno visto la nostra casa e abbiamo parlato a lungo, ma non di religione». Il giorno stesso, ricorda suor Simone, «ci hanno chiamato dall’ospedale per dirci che all’indomani volevano trasferire qui il proprio figlio! Così sono venuti qui e ora sono molto felici».

Anche famiglie musulmane arabe, cristiane e druse hanno trovato questa triste forma di felicità nelle cure delle suore e della loro equipe. «Quando vengono a visitare l’istituto», mi informa suor Simone sorridendo, «dicono: “metteremo nostro figlio in questo istituto e in nessun altro”. Perché “qui sentiamo umanità. Qui sentiamo amore”. E vedono come ci prendiamo cura dei bambini».

Mentre percorriamo un’altra stanza piena di brandine e letti con barriere sollevate per evitare che i bambini cadano, mi spiega che alcuni piccoli sono nati con danni celebrali e gravi disabilità fisiche perché i loro genitori erano parenti stretti, per esempio cugini.

Mi conduce al letto di un ragazzo più grande che le fa un gran sorriso quando lei si avvicina e le accarezza il viso. «Kifukhabibi?», gli sussurra in dialetto libanese. Se non fosse per la barba nell’incavo delle guance, direi che ha 12 o 13 anni. Invece «Omar ha 21 anni, è il nostro ragazzo più grande», dice. «Sta con noi da quando era piccolo».

In quella stanza da una televisione si diffonde la musica di una emittente araba e i colori vivaci che si spandono dallo schermo si riflettono sui muri, danzando. Suor Simone mi porta poi in fondo alla stanza, fino al letto di un bambino grande, deve avere circa undici anni. Sta dormendo, ma le sue mani e le sue braccia sono contorte in quella che ai miei occhi sembra una posizione straziante. Molti bambini dormono così, per questo è tanto importante che facciano fisioterapia ogni giorno, mi spiega suor Simone.

«Questo è Aaron. È un ragazzo ebreo di 16 anni — dice — e questo è suo fratello», aggiunge, indicando il letto vicino. È come se la lama di un coltello mi trafiggesse il petto, non riesco più a respirare. Suor Simone spiega che dopo la nascita del secondo figlio, i genitori hanno scoperto che tutti e due aveva un difetto genetico ma che solo insieme potevano passare ai figli. Non avrebbero avuto quel problema con coniugi diversi. Hanno quindi preso la difficile decisione di restare insieme e di non avere più figli. Hanno comprato un furgone adeguatamente attrezzato per portar i ragazzi in gita. Vengono a visitarli ogni giorno.

«Il padre viene tutti i weekend», aggiunge suor Simone, e per la prima volta la sua voce s’incrina: «e si porta i ragazzi a casa».

Mentre questa coppia è rimasta insieme, molte famiglie sono state letteralmente fatte a pezzi da una simile disgrazia, specialmente quando alla base dei problemi del figlio c’è stato un incidente. Proprio come è accaduto all’angioletto nella stanza dei bambini piccoli e a un’altra bambina a cui è andata di traverso una gomma da masticare.

Le suore aiutano le famiglie offrendo una parola di conforto, a volte qualche consiglio, ma sempre con un sorriso caloroso e un abbraccio. «È dura, molto dura per i genitori. Si sentono in colpa. E davvero noi cerchiamo di accompagnarli meglio che possiamo e proviamo pena per loro quando li vediamo soffrire così tanto».

Le stanze si susseguono e in ognuna ci sono da 4 a 6 bambini. Una stanza ha un cancelletto alla porta: «Questi sono i nostri bambini che si possono muovere con un po’ più di autonomia», mi spiega. Sbircio nell’oscurità. Ci sono solo tre bambini in quella stanza.

In un’altra, un’infermiera araba è protesa su un lettino di un bambino che deve avere circa 4 anni. «Gli sta massaggiando la schiena gobba: è come una tartaruga con i piedi ripiegati sotto di sé». Sta ridacchiando. In mezzo al debole ronzio delle macchine per il monitoraggio e l’alimentazione.

«Poverino. Sta così tutta la notte — mi dice suor Simone — non riesce a dormire. Noi cerchiamo di calmarlo». Si lascia cadere su un fianco, ridacchiando ancora un po’. E anche se sono in quello che dovrebbe essere il più triste dei posti, mi sono sorpresa a sorridere.

«Ti dico la verità — confessa suor Simone — quando inizi a lavorare con bambini così, è molto, molto duro. Ma dopo un po’ senti una pace profonda. Una pace profonda. Penso che Dio ci dia la grazia e la forza per prenderci cura di loro. Credimi, è una serenità vera. E tu li vedi oggi; sembrano angeli, angeli per davvero».

Pensavo che mi sarei sentita triste qui, ma ogni bambino ha un sorriso immenso; l’amore che sentono è tangibile, osservo. Mentre altri istituti hanno uno o due operatori per bambino, suor Simone mi ha detto che la sua casa ne ha 3 o 4. Dottori, infermiere, insegnanti e fisioterapisti qui vengono da credi diversi, proprio come i bambini. È un posto di pace e di amicizia in una terra agitata.

Indicando l’infermiera che massaggia la schiena del bambino, mi spiega che la caposala è ebrea e «un’altra è araba cristiana. Abbiamo anche musulmani», lavorano tutti assieme come una squadra molto unita per prendersi cura dei bambini.

Genitori e intere famiglie sono invitati per i compleanni dei bambini e per festeggiare il Natale e la Pasqua, e le festività ebraiche e musulmane. Nelle giornate speciali dedicate alla famiglia, ognuno partecipa all’intrattenimento con lezioni di cucina, giochi, ceramiche artigianali e balli. Le suore organizzano anche gite e settimane in campagna per i bambini.

Mentre percorriamo la corsia mi fermo. Siamo arrivate a un letto vuoto. Leggendomi nel pensiero, suor Simone mi rassicura: quel bambino sta trascorrendo la notte a casa con i genitori. Ma un letto vuoto in un’altra notte significherebbe una tristezza inimmaginabile per una famiglia e una speranza incontenibile per un’altra. Solo se un bambino muore c’è posto per un altro.

Suor Simone mi parla del suo dolore quando, non tanto tempo fa, uno dei suoi bambini è morto. «Non aveva genitori, nessuno. Solo la previdenza sociale e noi. Era ebreo». Suor Simone, suor Pascale e due infermiere hanno fatto i turni in ospedale per tenergli la mano. Sono state le uniche a dirgli addio. «Al suo funerale, eravamo in quattro con il rabbino. Mi creda, tutte abbiamo pianto. È stata molto dura».

Le chiedo: si è sentita mai molto triste per un bambino che le era particolarmente caro? O, ha cercato di mantenere la distanza per non affezionarsi troppo a lui?. Suor Simone rimane esterrefatta davanti alla mia domanda. «No! Noi ci affezioniamo! Non puoi mantenere la distanza, non puoi! Perché, sa, dipendono completamente da noi».

A essere «più importante è il cuore, mi creda. Guardare ogni bambino, capire cosa vuole, che cosa lo fa soffrire. Per questo, devi veramente provare amore e sentimenti per loro».

Quando torniamo indietro e usciamo nel calore insopportabile, sento il cuore pesante, ma non di tristezza, bensì di tenerezza e speranza che, in questa terra aspra, la bontà e l’amore possano davvero trionfare.

di Tracey McClur

© Osservatore Romano - 27 luglio 2019