Passione per l’unità

croce cristianidi fratel ALOIS

Molto giovane, fratel Roger ha ritenuto che creare una comunità di uomini che cercassero incessantemente di riconciliarsi e di vivere tra loro in una comunione profonda sarebbe stato un segno essenziale. E questo per due aspetti.
D’un lato, rispetto al male della sua epoca, la guerra mondiale, egli vedeva che, in un’Europa lacerata dalla violenza, realizzare in alcuni una vita di comunità fraterna avrebbe dato un’immagine di pace e riconciliazione, avrebbe portato un seme di fraternità nella società. Egli voleva incominciare a preparare ciò che sarebbe venuto dopo questa guerra. D’altro lato, egli constatava nell’ambiente che gli era proprio, quello del protestantesimo francofono del primo trentennio del Novecento, una certa paralisi della Chiesa, provocata dall’individualismo dei pastori. Un individualismo che talvolta portava a grandi solitudini. Ai suoi occhi una comunità poteva diventare come un microcosmo di Chiesa, il microcosmo di una comunione. Ma la vita monastica era scomparsa dalle Chiese della Riforma. Allora, senza rinnegare le sue origini, ha creato una comunità che affondasse le sue radici nella Chiesa indivisa, prima del protestantesimo, e che con la sua stessa esistenza si legasse indissolubilmente alla tradizione cattolica e ortodossa. La vocazione che fratel Roger ha proposto ai fratelli che si univano a lui era di costituire ciò che ha chiamato una “parabola di comunione”, una “parabola di comunità”. Una parabola è un racconto semplice, ma che rimanda a una realtà di altro ordine. Il senso di una parabola è inesauribile, essa non dice le cose una volta per tutte, non cessa d’interpellare coloro che l’ascoltano e la riascoltano. Vivere questa parabola, approfondirla lungo gli anni, ci ha stimolato a rilevare diverse sfide che non erano necessariamente presenti nella coscienza dei primi fratelli, ma che sono apparse lungo la nostra storia. Una prima sfida è all’interno della comunità. Allargare sempre più la parabola di comunione ci ha portati a integrare in una medesima vita comune una diversità sempre più grande, la diversità delle nostre provenienze confessionali, dapprima protestanti poi cattolica, e anche la diversità delle nostre culture d’origine, poiché noi ora veniamo da tutti i continenti. Un’altra sfida, conseguenza della prima, è esterna alla comunità, concerne la nostra situazione nella Chiesa. Vivere la parabola di comunione ci ha condotti a stabilire un legame d’amicizia e fiducia con le diverse Chiese, comprese anche quelle che tra loro non sono necessariamente in comunione. Il fatto che questi legami siano non giuridici dà una grande libertà. Per esempio, è possibile che la nostra comunità sia in comunione con il Papa, nel suo servizio d’unità, cosa che non impedisce d’e s s e re in comunione con Chiese ai cui occhi il ministero del Papa è un ostacolo all’unità. Una terza sfida ha una dimensione più ampia, è ciò che ci spinge a vivere la parabola di comunione nel e per il mondo. Questo non è una nostra specificità. Ogni vita comune fondata su Cristo può diventare una parabola. In un mondo in cui molti camminano come se Dio non esistesse, il fatto che uomini o donne s’imp egnino per sempre nella sequela di Cristo pone delle domande. La loro vita diventa immagine concreta, visibile, di una realtà che li supera, essi costituiscono un segno di Cristo che è misteriosamente presente nel mondo e vicinissimo a coloro che li circondano. La parabola di una vita consacrata a Dio e al servizio degli altri impone niente, non vuole provare nulla, essa apre un mondo chiuso in se stesso, gli apre una finestra verso un oltre, una breccia verso l’infinito. Coloro che la vivono non si lasciano paralizzare dalla complessità delle difficoltà delle nostre società. Hanno gettato la propria ancora in Cristo, così possono ampliare un’apertura verso la speranza. Sì, gettare l’ancora in Dio per resistere anche quando sopraggiunge la temp esta. D all’inizio degli anni Settanta, con l’accordo del vescovo locale di quel tempo, tutti i fratelli ricevono la comunione della Chiesa cattolica; era la sola possibilità di comunicare insieme. Alcuni anni prima, i fratelli avevano constatato che la semplice presenza di fratelli cattolici nella comunità li spingeva a vivere in comunione con il vescovo di Roma, consapevoli che la Chiesa cattolica aveva sempre la preoccupazione di custodire l’universalità della comunione in Cristo. Coloro che sono cresciuti in una famiglia protestante assumono questi valori senza alcun rinnegamento della propria origine, ma piuttosto come un ampliamento della loro fede. I fratelli che provengono da una famiglia cattolica trovano un arricchimento nell’aprirsi ai doni delle Chiese della Riforma che mettono in evidenza più di altre certe realtà fondamentali: l’agire di Dio in nessun modo è condizionato dall’agire umano, egli offre il suo amore gratuitamente; con la sua Parola viene incontro a quelli che l’ascoltano e la mettono in pratica; la semplice fiducia della fede porta alla libertà dei figli di Dio; cantare insieme interiorizza la Parola di Dio. Pure molto presto, la nostra comunità ha cercato una comunione con la Chiesa ortodossa. Nel 1965, il patriarca ecumenico di Costantinopoli, Atenagora, aveva inviato dei monaci a Taizé affinché vivessero alcuni anni di vita monastica con noi. Con la Chiesa ortodossa russa, fratel Roger ha pazientemente stabilito dei legami di fiducia che continuano oggi. Come per i cristiani d’Oriente, la risurrezione — quella di Cristo e anche la nostra — il ruolo dello Spirito santo nella Chiesa stanno al cuore della nostra fede. E condividiamo la loro attenzione all’insegnamento dei padri della Chiesa. Questa vita ecumenica quotidiana è diventata per noi molto naturale. Certo, questo a volte implica limitazioni e rinunce. Ma non c’è riconciliazione senza rinunce. Mi fermo qualche istante sul cammino che fratel Roger ha personalmente fatto e che così lo ha aperto alla comunità. Egli vedeva l’identità di un cristiano innanzitutto nella comunione con Cristo dispiegandosi nella comunione tra tutti quelli che sono di Cristo. Scopriva Cristo nei battezzati di tutte le confessioni. Aggiungo che guardava anche come “portatori di Cristo” donne e uomini che, senza professare una fede esplicita, erano testimoni di carità e pace: alcuni di loro, scriveva, «ci precedono nel Regno di Dio». Non si lasciava fermare dalle divisioni tra differenti tendenze. Per esempio, al concilio Vaticano, dov’era stato presente come osservatore, molti si erano stupiti che avesse potuto stabilire buoni legami fraterni con un cardinal Ottaviani come con un dom Hélder Câmara. Fratel Roger respirava talmente nella Chiesa indivisa che ha compiuto un percorso che non ha precedenti da dopo la Riforma ed è arrivato a dire: «Ho trovato la mia propria identità di cristiano riconciliando in me stesso la fede delle mie origini con il mistero della fede cattolica senza rottura di comunione con chiunque». E a volte poteva aggiungere «e con la fede ortodossa », tanto si sentiva vicino alle Chiese orto dosse. Entrare in una comunione con gli altri senza rottura con le proprie origini: siccome questa iniziativa era completamente nuova, era facile interpretarla male e non vederne la portata. Questo cammino di fratel Roger è delicato, esigente, e noi non abbiamo finito d’esplorarlo: seguendolo, a Taizé, vorremmo anticipare la riconciliazione con le nostre vite, vivere già da riconciliati, e speriamo che questa esperienza possa contribuire a preparare un avanzamento teologico. Nella storia della Chiesa, la fede vissuta non ha forse sempre preceduto l’espressione teologica? Non abbiamo la pretesa di aver trovato la soluzione. I nostri modi di fare sono imperfetti. Sappiamo che la nostra situazione è provvisoria nell’attesa dell’unità pienamente realizzata. Cerchiamo d’entrare nella dinamica della riconciliazione. Vorremmo che coinvolgesse dei cristiani separati nell’imparare ad appartenere gli uni agli altri, a purificare le loro rispettive tradizioni, a distinguere tra la Tradizione e le tradizioni che sono solo delle abitudini, ad avanzare in un ecumenismo che non si accontenti di mantenere i cristiani su binari paralleli. La storia di Taizé può essere letta come un tentativo a mettersi e stare insieme sotto lo stesso tetto. Ci saranno sempre delle differenze; esse possono essere un arricchimento. Ma non è forse giunto il tempo di dare la priorità alla nostra identità battesimale comune a tutti? In tutte le Chiese l’identità confessionale è stata messa al primo posto. Ci si definisce dapprima come cattolico, protestante o ortodosso. In realtà, è l’identità battesimale che dovrebbe avere la priorità. Cristo dona l’unità quando e come vuole, essa è un dono. Ma ancora bisogna riceverlo questo dono. Se non ci mettiamo insieme, come può farci il dono dell’unità? È quand’erano riuniti sotto lo stesso tetto, nella stanza al piano superiore, di Gerusalemme che gli apostoli e Maria, e alcuni altri tra donne e uomini, hanno ricevuto il dono dello Spirito santo. E lo Spirito santo sempre ci unisce con le nostre diversità. Come metterci sotto uno stesso tetto? In questi ultimi due anni, più volte ho proposto questi sei suggerimenti. In una comunità locale, noi possiamo metterci sotto uno stesso tetto, tra vicini e famiglie, un po’ come in “comunità di base”, per pregare insieme, aiutarci vicendevolmente, diventare più famigliari gli uni degli altri. Tra parrocchie di confessioni diverse esistono già delle collaborazioni nello studio della Bibbia, in un lavoro sociale e pastorale, nella catechesi. Esse potrebbero essere intensificate. Che ogni comunità locale faccia con i cristiani delle altre confessioni tutto quello che è possibile fare insieme, e non faccia più niente senza tener conto degli altri. In molte città, la cattedrale o la chiesa principale non potrebbe diventare una casa di preghiera comune a tutti i cristiani? Il dialogo teologico deve continuare. Sarebbe pensabile di poterlo ricondurre di più in un contesto di preghiera comune e con la coscienza di essere già insieme? Vivendo e pregando insieme, si affrontano in un altro modo le problematiche propriamente teologiche. Forse si potrebbe dire la stessa cosa della riflessione etica. Tutti i credenti hanno ricevuto una parte di dono pastorale per vegliare gli uni sugli altri. La Chiesa ha anche bisogno di ministeri d’unità, a tutti i livelli. Un ministero di comunione a livello universale è tradizionalmente associato al vescovo di Roma. Non potrebbe essere riconosciuto come il servitore che veglia sulla concordia dei suoi fratelli e sorelle nella loro grande varietà? Per questo, non sarebbe possibile che le Chiese sviluppassero forme diverse di riferimento a questo ministero? Del resto, non è già qui o là, in piccola misura, una realtà molto informale, ma reale? Le Chiese che sottolineano che l’unità della fede e l’a c c o rd o sui ministeri sono necessari per ricevere insieme la comunione — che è il caso della Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse — non dovrebbero dare altrettanto peso all’accordo sull’amore fraterno? Non potrebbero offrire allora più ampiamente l’ospitalità eucaristica a coloro che manifestano il desiderio d’unità e che credono nella presenza reale di Cristo? L’eucaristia non è solo l’apice dell’unità, ma anche il cammino verso l’unità. In questi suggerimenti, uno degli elementi chiave è quello dell’ospitalità reciproca. Non parlo più ora dell’ospitalità dell’eucaristia, ma dell’ospitalità in senso più vasto, quello dell’accoglienza del cuore e dello spirito offerto all’altro. In questo senso, l’ospitalità sposta il centro di gravità dal lavoro delle commissioni di dialogo verso la vita, quella di tutti fedeli, quella di tutti i giorni. L’ospitalità interconfessionale, come l’ospitalità interreligiosa, implica uno sforzo di traduzione e di perdono, poi la riconoscenza dell’a l t ro . Essa suppone la fiducia che l’altro sia onesto come me nei suoi passi. Mi spiego. Una vera ospitalità domanda dapprima uno sforzo di traduzione. Le credenze e le forme di pietà sono come delle lingue che sono straniere le une alle altre. La traduzione richiede pazienza e dev’essere costantemente ripresa. Ascoltare quello che l’altro dice, tradurre nella mia lingua ciò che sento dire dall’altro, accettare che alla fine rimanga qualcosa d’intraducibile, ma camminare insieme nonostante questo. Poiché rimane sempre qualcosa d’intraducibile, l’incontro e l’ospitalità non sono possibili senza perdono, nella misura in cui l’intolleranza e il rifiuto dell’altro hanno ferito la fraternità. Il perdono non può essere preteso, esso è innanzitutto dell’ordine della misericordia, dell’ordine della grazia. L’ospitalità va con la riconoscenza dell’altro nella sua alterità. Quando la verità della fede dell’altro resta inaccessibile, stiamo almeno attenti all’autenticità della sua fede e della sua ricerca. Allora l’incomprensione può trasformarsi nel rispetto di un mistero. E riconoscenza vuol dire anche gratitudine. Che ci sia della gratitudine, un elemento festivo, nella scoperta stupita dell’a l t ro ! È veramente possibile mettersi sotto lo stesso tetto prima che venga trovato un accordo su tutte le questioni teologiche? Io rispondo: sì, certamente. Papa Benedetto XVI, che era così preoccupato di evitare ogni relativismo, ha usato queste parole sorprendenti: «Non è opportuno affermare in maniera esclusiva: “io possiedo la verità”. La verità non è possesso di alcuno, ma è sempre un dono che ci chiama a un cammino di assimilazione sempre più profonda alla verità. La verità può essere conosciuta e vissuta solo nella libertà, perciò all’altro non possiamo imporre la verità; solo nell’incontro di amore la verità si dischiude » (Ecclesia in medio oriente, 27). «La verità non è possesso di alcuno, ma è sempre un dono», dice Papa Benedetto. Forse è giunto il tempo in cui, nelle differenti Chiese, la teologia si faccia più umile, nel senso che essa comincerà a integrare sempre di più il fatto che Dio sarà sempre oltre i concetti. A questo proposito, la tradizione della teologia apofatica, cara ai cristiani d’oriente, viene in nostro aiuto e ci porta a sottolineare ancor più quello che Dio non è piuttosto di voler definire quello che è. «Solo nell’incontro di amore la verità si dischiude», dice ancora Papa Benedetto. È anche quello che scrive l’apostolo Giovanni: «Nessuno mai ha visto Dio; se ci amiamo gli uni gli altri, Dio rimane in noi» (1 Giovanni, 4, 12). Per essere nella verità di Dio, la sola strada è stare insieme, amarci e camminare insieme. Ai nostri giorni un atteggiamento di gentilezza talvolta nasconde male i giudizi reciproci e i rifiuti di riconciliarsi. I dialoghi ufficiali avanzano, ma capita anche che sottilità teologiche servano a giustificare le separazioni. La verità si dischiude solo nell’incontro di amore, la nostra identità di cristiani si costruisce camminando insieme. Allora, oggi, avremo il coraggio di metterci sotto lo stesso tetto per camminare insieme verso la verità e che questa possa dischiudersi? Noi cristiani formiamo insieme la Chiesa visibile, ma crediamo che il Vangelo crei una comunione più ampia: nel cuore di Dio tutti gli umani costituiscono una sola famiglia. Pertanto non è per rinchiudersi in se stessi che quelli che amano Cristo cerchino di costituire una grande comunità d’amicizia: con la loro comunione partecipano alla guarigione delle lacerazioni dell’umanità. La loro comunione può diventare germe di fraternità tra gli umani. Ci sono stati periodi della storia in cui, in nome della verità del Vangelo, i cristiani si sono separati. Oggi, in nome della verità del Vangelo, vorremmo cercare di fare il possibile per riconciliarci. Il messaggio di Cristo possiamo trasmetterlo attorno a noi solo se siamo insieme. Quando i cristiani sono separati, il loro messaggio diventa inascoltabile. Per contribuire a plasmare il volto delle società di domani, non dobbiamo forse, noi cristiani, metterci in prima linea per realizzare la fraternità inaugurata da Cristo? A tale proposito, la globalizzazione può diventare un aiuto. Proprio perché sono una comunità universale, i cristiani possono favorire una mondializzazione della solidarietà che esclude nessun popolo, nessuna persona. Probabilmente possiamo solo seminare dei piccoli semi di fiducia e pace. Ma non siamo forse chiamati a vivere quello che agli occhi umani non sembrerebbe possibile? Ho parlato di comunione, di riconciliazione tra cristiani, di fraternità tra tutti gli umani. Quando mi dicono che sono realtà irraggiungibili, irrealizzabili, faccio appello alla testimonianza d’Isaia che scrive: «Farò camminare i ciechi per vie che non conoscono. Trasformerò davanti a loro le tenebre in luce» (42, 16). Accettiamo di camminare su una via che non conosciamo in anticipo. Poniamo la nostra fiducia in Dio: che ci guidi, anche oggi, su vie che ancora non abbiamo mai seguito.

© Osservatore Romano - 3 marzo 2016