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Il siriano che cambiò la teologia occidentale - Dionigi

frontespizio del De Divinis Nominibus 1500Nuova edizione critica del «De divinis nominibus» dello pseudo-Dionigi.

Nel XVIII canto del Paradiso Beatrice spiega a Dante le gerarchie angeliche e quindi ricorda «Dionisio» che

«con tanto disio / a contemplar questi ordini si mise, / che li nomò e distinse com’io». Perfino papa Gregorio Magno dovette ricredersi («di se medesmo rise») riconoscendo la superiorità dello schema dionisiano, la cui incomparabile forza risiedeva, secondo i medievali, nel derivare dall’ascolto diretto da parte di Dionigi della viva voce di Paolo, rapito al terzo cielo ( Paradiso 28, 130-139). La Commedia non è l’ultima eco dello straordinario successo tributato dal medioevo greco-latino al misterioso autore neoplatonico della fine del v secolo nascosto sotto il nome di Dionigi l’Areopagita, uno dei pochi convertiti di Paolo ad Atene ( Atti 17, 34).

Composto da quattro trattati e dieci lettere, trasmesso da traduzioni anche in siriaco, armeno, georgiano e antico slavo, il corpus dionisiano ebbe un’enorme fortuna fra teologi e mistici, in Oriente e Occidente.
Nell’827 l’imperatore bizantino Michele ii donò un manoscritto delle opere dell’Areopagita a Ludovico il Pio. Una prima traduzione latina venne realizzata poco dopo da Ilduino, abate di Saint-Denis, nel monastero ove si riteneva fosse sepolto il corpo dell’autore, ritenuto il primo vescovo di Parigi martirizzato nel 110 sotto Adriano, e dove il manoscritto fu depositato.
Qualche anno dopo Giovanni Scoto Eriugena migliorò la traduzione di Ilduino garantendo al corpus dionisiano una persistente fortuna nel mondo latino, nel quale veicolò una possente visione dell’universo al tempo stesso gerarchica e simbolica. Se Lorenzo Valla nelle sue Annotazioni sul Nuovo Testamento (pubblicate da Erasmo nel 1507) contestò la paternità dionisiana degli scritti, essa trovò ancora tenaci e convinti difensori, pour cause, nella Francia dell’Ottocento. Eppure già Ipazio, vescovo di Efeso, nel confronto fra cattolici calcedonesi e monofisiti severiani avvenuto a Costantinopoli nel 532 mise in dubbio, contro i severiani che lo citavano a loro sostegno, che l’autore degli scritti fosse il discepolo di Paolo.
L’opinione ora prevalente è che sia stato un cristiano di origine siriaca che negli ultimi decenni del v secolo e agli inizi del vi seguì ad Atene le lezioni di Proclo e di Damascio.
Il trattato più lungo del corpus dionisiano è dedicato ai Nomi divini. Vi si afferma l’assoluta trascendenza della divinità, la Tearchia, il principio divino, che può essere celebrato con tutti i nomi e con nessuno. Impossibile accennare alla ricchezza dei temi presenti nello scritto, che per secoli alimentarono il filone della teologia negativa, da Massimo il Confessore sino ai mistici renani e al trecentesco trattato inglese The Cloud of Unknowing. L’imponenza della tradizione manoscritta scoraggiò a lungo un’edizione critica moderna. Per un trattato così decisivo, come per il resto del corpus Areopagiticum, si ricorreva al testo del terzo volume della Patrologia Graeca di Migne, che riprendeva l’edizione del gesuita Balthasar Cordier venuta alla luce ad Anversa nel 1634.
Agli inizi degli anni sessanta del Novecento un giovane romano di origini siciliane, Salvatore Lilla (1936-2015) si accinse con straordinario coraggio alla grande impresa. Formatosi alla Normale di Pisa, perfezionatosi a Oxford (1958-1962), incominciò a lavorare all’edizione prima a Francoforte e poi a Gottinga, per incarico della «Kirchenväter-Kommission» della Accademia delle Scienze di Heidelberg (1962-1964). Entrato in Biblioteca vaticana, ove fu «scrittore» greco dal 1965 al 2001, Lilla continuò a lavorare, con la mite determinazione dei forti, all’edizione pubblicando articoli, collazionando manoscritti, raccogliendo e classificando varianti, perfezionando il testo e arricchendo gli apparati critico e delle fonti (Lilla non frequentava banche-dati ma conosceva come pochi il pensiero greco, dai presocratici ai neoplatonici, e riconosceva con la sua formidabile memoria gli echi di citazioni che pochi avrebbero ravvisato). Solo chi lo pratica sa quale grado di ascesi e di disciplina comporti un lavoro simile. L’edizione, che veramente fu l’opera della sua vita, vede la luce ora a tre anni dalla morte di Lilla, per la fedeltà affettuosa della moglie, Natalina, e per l’amicizia fedele e intelligente di Claudio Moreschini (Dionysii Areopagitae De divinis nominibus. Prefationem, textum, apparatus, Anglicam versionem instruxit S. Lilla , edenda curavit C. Moreschini, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2018 [Hellenica, 71], pp. LXXIX, 173, euro 24).
Dopo le edizioni del De divinis nominibus di Beate Regina Suchla ( Patristische Texte und Studien, 33; Berlin 1990) e di Ysabel de Andia ( Sources Chrétiennes, 579; Paris 2016) ha senso un’altra edizione critica del testo? Certamente, risponde Moreschini. Essa «costituisce la presenza di una voce indipendente e parimenti autorevole negli studi dionisiani» e «possiede un sicuro valore storico e meriti scientifici intrinseci».
Perché col suo lavoro Lilla fece opera da pioniere: «quando iniziò a lavorare sulla tradizione manoscritta» dell’opera, intorno al 1960, «nessuno ancora aveva affrontato quel compito né aveva pensato di attuarlo. La ricerca e la collazione di quaranta manoscritti e la costituzione di uno stemma codicum furono, per l’epoca in cui fu pubblicato l’articolo che li illustrava (1965), una novità assoluta, e i risultati a cui lo studioso pervenne rimangono validi tutt’ora. Non esisteva allora, in Europa, alcuna edizione critica del De divinis nominibus, e ancora meno in Italia, dove la ricerca sugli autori cristiani era o di carattere confessionale e normalmente non scientifica o apertamente osteggiata e svilita negli ambiti accademici».
Per tali motivi, l’edizione postuma del De divinis nominibus, perseguita da Lilla aere suo, solo con le sue «risorse intellettuali e fisiche, senza nessun sostegno, accademico o economico», non è solo un evento di carattere scientifico ma rappresenta il culmine e il traguardo di una singolare vicenda umana, esemplare testimonianza di quell’uomo fuori del comune che fu l’umile, sapiente e tenace scriptor greco della Biblioteca vaticana.

di Paolo Vian

© Osservatore Romano - 1 agosto 2018