Come i giovani ebrei vivono una delle festività più identitarie della loro religione Pèsach con gli occhi di un ragazzo

festa ebraicaA pochi giorni di distanza dalla Pasqua cattolica, come spesso accade, il popolo ebraico celebra Pèsach, la ricorrenza di una settimana che ricorda la liberazione dei loro antenati dall’Egitto verso la Terra promessa. È un momento molto intenso per le famiglie specialmente durante il Sèder, il rito della prima notte in cui è tradizione seguire un ordine particolare di preghiere e cibi mentre si ricorda la storia del conflitto con il faraone, le dieci piaghe e la fuga dall’Egitto. La celebrazione della festività è vissuta molto attivamente, perché prescrive

le stesse regole che hanno rispettato gli antenati più di cinquemila anni fa: ossia, non mangiare cibo lievitato per una settimana in memoria del fatto che, nella fuga dall’Egitto, non si ebbe tempo per far lievitare il pane. Per questo motivo, Pèsach è un’occasione di cementazione del gruppo per alcuni e di riscoperta delle proprie radici per altri.

È interessante vedere quanto l’ebraismo, specialmente in occasioni come queste, sia radicato nello spirito delle generazioni più giovani, in quella fascia d’età, per antonomasia, proprio meno vicina alla fede. Considerata però da molti una delle religioni con maggior attaccamento in percentuale tra i fedeli, abbiamo provato a vedere se è davvero così.

Su questo punto, i ragazzi intervistati hanno confermato le aspettative. «È normale che ciò avvenga, essendo in netta minoranza non possiamo permetterci di disunirci altrimenti verremmo completamente spazzati via; il compito è quello di tramandare la tradizione del nostro popolo». Anche se poi, in realtà, ognuno vive il proprio ebraismo a modo suo. Sion ad esempio è molto inserito all’interno della comunità romana, e sostiene che per certi versi è più “facile” essere ebrei quando si ha amici della stessa fede. «Sono consapevole che la nostra sia una religione con molte prescrizioni, ad esempio abbiamo tanti cibi che non possiamo mangiare e capita di avere un po’ di imbarazzo quando si va al ristorante e di non poter ordinare quasi niente. C’è anche la spiritualità con cui viviamo lo Shabbat, per cui io ad esempio il venerdì sera non esco. Avere tanti amici ebrei indubbiamente ti aiuta a vivere il tutto meno difficile. Ho sempre sentito particolarmente Pèsach perché è la nostra festività più identitaria, emerge proprio il concetto di popolo ebraico. Infatti, ogni anno vado a Tel Aviv dove ci incontriamo con i miei fratelli che vivono fuori dall’Italia, ma sanno che cascasse il mondo il Sèder si fa insieme in Israele».

Giorgio, invece, è meno rispettoso dei precetti ma conserva comunque il suo ebraismo. «Lo vivo più a livello identitario che religioso, ma rimango comunque fortemente legato alle mie origini. Per non parlare del Sèder, che considero come il passaggio di un testimone, l’obbligo di tramandare la storia del popolo ebraico nonché il momento più collettivo della nostra religione». Perché la condivisione non è solo in famiglia, anzi. «È tradizione che la seconda sera il Sèder si fa con gli amici, in modo tale da unire la fede con la socialità. Anche per le cosiddette “pulizie di Pèsach”, le pratiche per far sì che in casa non restino sostanze derivate dalla fermentazione di cereali, ho molti amici che si aiutano e si danno consigli per pulire, ognuno secondo la propria tradizione».

Infine, c’è anche chi vive la religione in modo molto individuale e lo preferisce, è il caso di Samuel. «Non condivido l’idea di vivere in comunità, c’è sempre qualcuno che ti dice cosa lo devi fare e come lo devi fare. L’ebraismo è libero pensiero, speculazione filosofica, non per niente abbiamo un'infinità di correnti come i tripolini, i sefarditi, gli aschenaziti. È la tradizione prima della norma a fare l’identità. Non sono tanto osservante, sono le tradizioni familiari che mi interessano, il cantare tutti insieme il Sèder di Pèsach ad esempio, che per noi ebrei è sacro. Il mio padrino di milà (la circoncisione) è sopravvissuto ad Auschwitz dopo essere stato catturato perché faceva il Sèder con troppe persone e si fece sentire, capisci? In un periodo in cui si stanno gradualmente perdendo i propri tratti identitari, noi invece vogliamo mantenerli».

di Emanuele Caviglia

© Osservatore Romano