Il cardinale Koch sullo stato dell’ecumenismo

ecumeneRiprendiamo un’intervista con il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani pubblicata su Katholische Kirche in Deutschland (www.katholisch.de).    di ROLAND JUCHEM

Il 31 ottobre termina l’anno anniversario dei cinque secoli della Riforma. Anche la Chiesa cattolica, in molti luoghi, è stata coinvolta. Il cardinale Kurt Koch ha partecipato a varie manifestazioni e qui traccia un bilancio, guardando alle sfide future dell’ecumenismo.

Cardinale Koch, l’anno giubilare dei cinquecento anni della Riforma sta per terminare. Quale il bilancio a suo parere?
È molto positivo che una commemorazione comune sia stata celebrata con pochi toni polemici, come invece era accaduto spesso in passato. In questo caso, ci si è concentrati su ciò che vi è in comune per celebrare insieme una festa di Cristo, così com’è stato deciso in Germania. Per me questa è stata la migliore idea ecumenica.

Questa festa di Cristo è riuscita?
Nel corso dei dieci anni di preparazione è andata sempre meglio. All’inizio avevo un po’ l’i m p re s s i o n e che tutto girasse attorno a Lutero. Nell’anno commemorativo, invece, si è accentuato di più ciò che soprattutto ci unisce: la fede in Gesù Cristo.

Lei ha partecipato a questa commemorazione in diversi paesi. Quali sono gli aspetti più importanti che ha colto?
Diversi, perché non si trattava solo della Riforma in Germania. Quella in Svizzera, per esempio, era diversa da quella tedesca. Inoltre, diversa era anche nei paesi del nord dove la Riforma non fu un movimento di popolo, ma la decisione dell’autorità dello stato. Per me, il punto culminante si è avuto a Lund, in Svezia, il 31 ottobre 2016, quando Papa Francesco e il presidente e il segretario generale della Federazione mondiale luterana hanno presieduto insieme la cerimonia di commemorazione. È stato un forte segno ecumenico.

Il cardinale Rainer Maria Woelki recentemente ha criticato la situazione dell’ecumenismo. Secondo il cardinale Woelki, voler interpretare le diversità di fondo semplicemente come delle «dimensioni che arricchiscono reciprocamente è “una falsa etichetta”».
Lei condivide questo giudizio?
Nel commemorare la Riforma si è accentuato soprattutto ciò che abbiamo in comune; ma rimangono, sia prima che dopo, dei problemi aperti. Io stesso ho proposto che dopo la Dichiarazione congiunta sulla giustificazione dovremmo giungere una nuova dichiarazione congiunta sulla Chiesa, l’eucaristia e il ministero. Sono grato che questa iniziativa sia stata accolta da molte parti in maniera positiva. Il dialogo in America tra luterani e cattolici ha già prodotto un documento del genere; e recentemente ho trovato sulla mia scrivania un nuovo lungo scritto dalla Finlandia. Ai temi riguardanti la Chiesa, l’eucaristia e il ministero bisogna aggiungere quelli etici che occorre approfondire maggiormente per elaborare anche su questi una visione comune. Questi sono i problemi che anche il cardinale Woelki ha sollevato.

Si potrebbe definire lo stato dell’ecumenismo in questa maniera: su Dio siamo concordi; ma sulla Chiesa?
Vorrei rispondere in maniera teologica e biblica: Siamo concordi su Cristo, ma non sul suo Corpo, ossia sulla Chiesa. Ambedue formano un tutt’uno inseparabile, poiché Cristo nel suo Corpo vuole essere presente, e lo è. Il rapporto tra Cristo e il suo Corpo continua tuttavia a rimanere un problema aperto.

L’ostacolo maggiore dell’ecumenismo è spesso identificato nel fatto che gli evangelici e i cattolici non hanno un’idea comune sullo scopo dell’ecumenismo. Come definirebbe questo scopo?
In effetti questo è il problema principale. Abbiamo raggiunto il consenso su molti problemi riguardanti la fede, ma non ancora su ciò che è lo scopo. Senza un fine comune, diventa difficile cogliere le successive tappe del cammino. Il problema sta nel fatto che ambedue le parti oggi usano la stessa formula ma in senso diverso.

La “diversità riconciliata”?
Esattamente. Per molti cristiani evangelici, come sento dire, l’attuale situazione è così intesa: siamo già riconciliati, ma rimaniamo diversi, dovremmo ora soltanto riconoscerci reciprocamente come Chiesa; allora sarebbe raggiunto lo scopo. Dal punto di vista cattolico, la “diversità riconciliata” è l’obiettivo: dobbiamo lavorare sui problemi ancora aperti in modo che non siano più motivo di divisione dal punto di vista ecclesiale. Una volta che questi sono riconciliati, possono allora rimanere anche le diversità.

Nella tradizione cattolica conosciamo l’influsso della liturgia e della fede vissuta sullo sviluppo dei dogmi: per esempio nella formula del battesimo e della dottrina trinitaria, nella devozione alla Madonna e nei dogmi mariani. Esiste qualcosa del genere nell’ecumenismo?
Il consenso sui problemi di fede, la vita di fede nella quotidianità e la liturgia, anche dal punto di vista ecumenico, sono legati tra di loro. Più le persone vivono e celebrano insieme la fede, più esse giungono ad avere su di essa visioni comuni. Importante è soprattutto non separare le due realtà secondo il detto: decisivo è ciò che viviamo e non ciò che si trova nel Credo.

Dalla Riforma si è sviluppato un dinamismo evangelico interno verso le libere Chiese a livello mondiale. Queste comunità costituiscono una forma più appropriata, o almeno più attraente, di vivere il cristianesimo rispetto alle Chiese tradizionali?
A prima vista, sembra così. Infatti constatiamo una grande crescita di queste Chiese, in particolare nei movimenti pentecostali. Il pentecostalismo costituisce oggi la seconda più grande realtà cristiana dopo la Chiesa cattolica romana. Si potrebbe parlare di una pentecostalizzazione del cristianesimo o di una quarta modalità di essere cristiani: cattolici, ortodossi, protestanti e ora pentecostali. Non credo tuttavia che questi movimenti in futuro diventeranno l’unica forma del cristianesimo. Anch’essi attingono infatti dalle grandi Chiese storiche e non possono semplicemente sostituirle.

Da questo movimento cosa potrebbe essere fruttuoso per la Chiesa cattolica?
Per le Chiese pentecostali sono centrali l’esperienza concreta della fede nella vita quotidiana e soprattutto nell’azione dello Spirito santo. Ciò non si può dire certo allo stesso modo della tradizione occidentale. In questo senso possiamo senz’a l t ro imparare qualcosa.

Negli anni scorsi si è parlato spesso di un “ecumenismo dei martiri”: i cristiani sono perseguitati e uccisi indipendentemente dalla loro confessione religiosa. Dove ha potuto avvertirlo in maniera particolarmente forte?
L’ecumenismo dei martiri è anche per me la sfida più centrale dell’ecumenismo, soprattutto oggi in cui l’80 per cento di tutti coloro che sono perseguitati lo sono a causa della fede. L’ecumenismo dei martiri costituiva già un tema importante con Giovanni Paolo II , il quale, durante la dittatura rosso-bruna, ha sperimentato come noi cristiani ci apparteniamo gli uni agli altri. Questo tema trova oggi una continuazione in Papa Francesco il quale ricorda spesso i martiri di Lubecca (vittime del nazismo). Egli ha formulato così la sfida dei martiri: «Se i dittatori uniscono noi cristiani nella morte, come possiamo noi giungere a separarci nella vita?».

© Osservatore Romano - 9-10 ottobre 2017