Il Dio ospitale nelle religioni abramitiche

lavare i piedi ospitalitàdi CLAUDIO MONGE *      -    Louis Massignon, grande orientalista francese, parlava dell’ospitalità come della grande eredità di Abramo affidata a tutti i credenti: la manifestazione di un «Dio ospite/ospitale» che dà un significato nuovo e spirituale alla pratica dell’accoglienza, significato che va ben al di là della fenomenologia dell’atto. In altre parole, anche in un ambito extra-cristiano, la riflessione sull’ospitalità va oltre le pratiche e la morale da una parte, o le categorie del politico e del giuridico dall’altra.
Bisogna, insomma, cogliere la dimensione teologale dell’atto ospitale. Parlando, infatti, di ciascuna delle tre religioni monoteiste (ma la considerazione potrebbe essere allargata anche ad altre religioni), si può constatare come esse siano, coscientemente o meno, una pratica teorica e simbolica dell’ospitalità del divino, nel senso del genitivo soggettivo e oggettivo, vale a dire secondo il doppio significato del termine “ospite”: inteso come colui che dà ma anche come colui che riceve l’ospitalità. Le religioni abramitiche si connotano come religioni rivelate e ci pare importante sottolineare il fatto che un Dio che si rivela è necessariamente ospitale, perché coglie la sfida del comunicarsi e cioè di rendersi comprensibile agli uomini. Un Dio che esce dalla solitudine della sua trascendenza per cercare una terra ospitale, dove ognuno può diventare il luogo del suo esodo. Tuttavia Dio non invade ma sta alla porta e bussa ( Ap o c a l i s s e , 3, 20) e si ferma dove gli si fa spazio. Questo significa che negare ospitalità allo straniero è negarsi all’incontro con Dio, perché il debito stesso di esistere si paga solo restituendo alleanza. È indiscutibile il fatto che il patriarca Abramo sia considerato l’antenato di tutti: degli ebrei e dei cristiani attraverso Isacco, il figlio di Sara, e dei musulmani attraverso Ismaele, il figlio di Agar, la schiava, una sorta di capostipite della fede monoteista. Nessuna delle tre tradizioni può appropriarsi della sua figura rivendicandone il monopolio esclusivo. «Abramo non era né ebreo, né cristiano: era un hanīf [il primo tra i credenti], dedito interamente a Dio e non era idolatra» (sura 3, 67). Ma non possiamo non constatare l’innegabile influenza della tradizione biblica, e più ancora della tradizione ebraica posteriore, sulla teologia musulmana riguardante il patriarca e la sua “stranierità nativa”. Questo neologismo testimonia di una condizione che è molto di più di un già poco confortevole senso di “estraneità” rispetto a se stessi e al mondo in cui si vive. Faccio infatti riferimento all’esperienza antropologica dell’esilio, dello sradicamento esistenziale prima ancora che culturale, che fanno da sfondo all’esodo necessario verso “l’a l t ro da sé”, nel quale si esprime, al tempo stesso, la dimensione di una ricerca religiosa come “nomadismo permanente”. È attraverso l’esperienza di Abramo che Israele scopre la sua vocazione di «ospite di Dio» accolto da Dio stesso benché «straniero ed errante». In un secondo momento, sempre nella tradizione ebraica, Abramo e Giobbe sono celebrati, a loro volta, come modelli di ospitalità e l’ haggadah presenta diverse leggende a questo proposito: le porte delle loro case (o tende) erano aperte sui quattro lati per permettere agli stranieri di trovare un facile accesso, indipendentemente dal loro luogo di provenienza. Ecco perché, per secoli, la fede israelitica si esprime alla luce della testimonianza dell’ospitalità incondizionata e universale dei patriarchi e di Abramo in particolare. Dunque, al cuore del giudaismo, l’ospitalità resta un’istituzione morale che certi rabbini giudicheranno più importante del dono stesso della presenza divina o Shekinah (il luogo della presenza della gloria di Dio). Questa constatazione è intimamente legata a una considerazione teologica: la rivelazione biblica, nella comprensione giudaica, è prima di tutto un’etica. Essa non è, cioè, nell’o rd i n e di uno svelamento, grazie al quale si comprende «chi è Dio», ma nell’ordine di un agire nel quale si scopre quello che «Dio fa per l’uomo». L’ospitalità nella letteratura rabbinica è prima di tutto considerata come una mitzvah , vale a dire come un dovere religioso essenzialmente legato alla carità. La responsabilità etica in senso biblico-giudaico è una contestazione radicale del primato del soggetto che accoglie perché, in realtà, non è lui che decide di accogliere ma è interpellato a questo compito dall’i r ru z i o n e dell’altro. Dio affida l’uomo all’uomo, dando Lui stesso le dimensioni del compito affidatogli: essere responsabile dell’altro significa volere per lui il bene che Dio vuole per ciascuna creatura. Si esce qui dall’ambito confessionale per abbracciare l’umanità nella sua creaturalità (colui che opera per la salvaguardia della dignità umana è già implicitamente contato tra i figli di Dio). In altre parole, l’uomo che accoglie l’ospite sacro è lui stesso elevato all’altezza della “gratuità divina”. Nel pensiero coranico l’ospitalità, in quanto dono, non risponde a una logica utilitaristica e non richiede reciprocità. Non solo nel Corano, ma anche in molti hadith del profeta la nozione fondamentale alla base della pratica dell’ospitalità è quella di ijãra (protezione o vicinanza), termine che in arabo rimanda a j ã r , il corrispondente dell’ebraico g h e r , che assume un significato socio-religioso, armonizzando la protezione in ambito umano a quella divina: perché il vero protettore è Dio e nessuno può accordare protezione contro il suo volere. Questa sacralizzazione del concetto di protezione conduce assai facilmente ad associare protezione e conversione all’islam o, più precisamente, la protezione diventa quasi una pre-condizione alla conversione auspicata. I convertiti diventano j i ra n (protetti) di Dio, sotto la sua dhimma . Quest’ultimo termine designa in realtà una sorta di contratto rinnovato a tempo determinato con il quale la comunità musulmana accorda ospitalità-protezione ai membri delle altre religioni del libro, a condizione che questi ultimi rispettino il primato dell’islam. Del resto, il termine d a i f , che corrispondente all’ospite, nel vocabolario arabo letteralmente significa «inclinare verso, declinare (di sole), deviare (di freccia)». Il verbo radicale di daif significa anche «lasciare (il cammino)» e «fermarsi in visita da qualcuno», da cui il senso di “ospite accolto”. In sintesi, nella percezione dell’ospitalità della cultura araba e islamica, l’ospite è innanzitutto qualcuno che devia dal proprio cammino, essendo però la sua deviazione in qualche modo necessaria, giacché dettata dalla legge della sopravvivenza. La richiesta di ospitalità che ne consegue comporta un diritto di protezione. Possiamo dire che l’ospitalità è l’anima delle grandi religioni? Prima di tutto, è necessario sottolineare come l’apertura ospitale sia un’esperienza non naturale ma, tuttavia, radicale dell’esistenza umana, indipendente da una determinata tradizione culturale e religiosa. Viceversa, è tale da suscitare tradizioni: sia sovvertendo l’ordine vigente dell’ostilità e della xenofobia, sia selezionando e rafforzando i migliori atteggiamenti per un’etica autenticamente umana. Se l’ostilità produce sacrifici e comunione nel sacrificio, l’ospitalità genera un’esperienza trascendente di comunione di vita che non ha bisogno di morte, un superamento in direzione di una pace accessibile a tutti. Anche in questo, Abramo, padre comune della fede, è un precursore. Attraverso la sua esperienza, il sacrificio religioso è smascherato, emergendo per quello che realmente è: un assassinio con motivazioni religiose. L’atteggiamento ospitale, nell’assegnare la priorità all’a l t ro , nel porre l’altro al centro, mette seriamente in discussione la religione auto-centrata. Il dilemma del sacro è che, in questo caso, non è sacro ciò che si preserva come tale, ma ciò che si cede e che si dona ed è in questo dono di ciò che c’è di più sacro — nell’ospitalità che assegna la priorità all’altro — che si incontra il vero nuovo sacrificio, a partire da Abramo. Attraverso l’esperienza paradigmatica del patriarca comprendiamo che solo assumendo la nostra propria condizione umana (che la presenza “dell’altro da noi” mette in evidenza) noi possiamo entrare nella dinamica di un vero scambio ospitale. È un processo di riappropriazione della nostra umanità, assolutamente centrale che, come ci ricorda la tradizione cristiana a partire dal mistero dell’incarnazione, diventa anche premessa di un rapporto nuovo con Dio, al quale non possiamo che accedere incontrando e accogliendo l’uomo. Sì perché, come ci ricorda l’inno cristologico della lettera ai Filippesi (2, 5-8), in Cristo Dio si è fatto straniero (nell’abbassamento kénotico ) per incontrare l’uomo, per accogliere gli stranieri di questo mondo nello spazio della cittadinanza divina: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio» (2, 19). Qualcuno potrebbe obiettare che questo rimando alla teologia dell’incarnazione è la fine di un dialogo interreligioso possibile. In realtà, indipendentemente dal riferimento al tema specifico dell’incarnazione, proprio della riflessione cristiana, attraverso la pratica dell’ospitalità entriamo al cuore della percezione stessa che l’uomo che accoglie ha di Dio nella sua essenza: una percezione, evidentemente, non esclusiva dei cristiani. Come ricordava Panikkar, il vero dialogo interreligioso non riguarda le dottrine, ma il senso della vita per coloro che credono. Questo dialogo intra-religioso è lui stesso un atto religioso. Questo implica che l’esp erienza che facciamo della nostra propria religione ci apre al mistero di cui non possiamo avere una proprietà esclusiva. Anche se siamo convinti di toccare la verità, non possiamo esaurirla. Per conoscere una religione e per poterne parlare, bisogna condividere la vita di coloro che credono e questa condivisione di vita si chiama ospitalità, dimensione fondamentale nell’orizzonte cristiano ma, evidentemente, non un’esclusiva di esso. Senza dialogo abbiamo la tentazione di assolutizzare la nostra prospettiva e asfissiamo al nostro proprio interno. Certo, definire il dialogo a partire dalla nozione di ospitalità è, comunque, una prospettiva parziale e non esaustiva. Tuttavia, essa permette di identificare gli effetti del dialogo in termini di arricchimento, di purificazione della propria fede (una purificazione che riguarda anche i pregiudizi storici relativamente al prossimo: insomma, il lavoro di tutta una vita, su se stessi e sulla comprensione della storia), senza pertanto impedire al dialogo stesso di presentarsi come ricerca concertata di un consenso, nella quale ci si orienta su valori guida, anche parziali, per evitare che l’autonomia soggettiva si trasformi in un relativismo radicale.

*Dominican Study Institute (Istanbul)

© Osservatore Romano - 4 gennaio 2018