Torniamo a Gerusalemme

synod 15






Di seguito pubblichiamo quasi per intero la relazione commemorativa svolta dall’arcivescovo di Vienna.

di CHRISTOPH SCHÖNBORN

Nel corso degli ultimi cinquant’anni il Sinodo dei vescovi è certamente stato uno degli strumenti privilegiati per l’attuazione del Vaticano II. Nel 1983 Papa Giovanni Paolo II p oteva affermare: «La chiave sinodale di lettura del concilio è diventata quasi un luogo di interpretazione, di applicazione e di sviluppo del Vaticano II. Il ricco elenco dei temi trattati nei diversi sinodi rivela da solo l’importanza delle sue assemblee per la Chiesa e per l’attuazione delle riforme volute dal concilio». Il Sinodo dei vescovi è certamente solo uno dei luoghi di interpretazione e di applicazione delle riforme volute dal concilio.
Tutta la ricca varietà di espressioni di vita della Chiesa contribuisce al rinnovamento desiderato dal concilio, a una sua ermeneutica più ampia. Nei cinquant’anni della sua esistenza, non sono neanche mai mancate critiche al Sinodo dei vescovi e alla sua efficienza. Non ho bisogno di elencare qui i diversi punti di critica di volta in volta avanzati. Un tema spesso e ancora discusso è la questione dell’autorità del sinodo, se esso sia un organo di consulenza a supporto del ministero petrino, oppure se abbia anche pieni poteri decisionali. Il Sinodo dei vescovi è una forma di co-governo della Chiesa universale? O serve soprattutto a vivere la collegialità, la collegialità effettiva e affettiva fra i vescovi cum et sub Petro? Si è discusso anche molto sul metodo del sinodo. Si sono criticati spesso aspetti del metodo di lavoro, e qualcosa, nel corso degli anni si è imparato dall’esperienza ed è stato migliorato. Guardiamo con gratitudine ai rinnovamenti di metodo sotto Papa Benedetto XVI e Papa Francesco. Molto si è scritto, di importante e di valido, circa i fondamenti giuridico- canonici ed ecclesiologici del sinodo. Penso soprattutto alla lectio magistralis del 1983 dell’allora cardinale Joseph Ratzinger sugli «scopi e metodi del Sinodo dei vescovi». Con la sua solita chiarezza, egli si è espresso qui sulla collocazione giuridica e teologica del Sinodo dei vescovi nell’insieme della Chiesa. Le sue spiegazioni non hanno perso di v a l o re . Già allora, quando l’istituzione del Sinodo dei vescovi non aveva ancora 20 anni, si ponevano soprattutto due domande, rimaste finora attuali, che il cardinale Ratzinger nella sua relazione formulò nel modo seguente: «Va discusso se l’attuale figura giuridica del sinodo corrisponde perfettamente al suo scopo, che viene delineato... nell’ambito di una certa realtà teologica esistente nel concilio Vaticano II, vale a dire all’interno del rapporto tra missione del successore di san Pietro e la responsabilità comune di tutto il collegio del vescovi, al quale, con e sotto Pietro, è stata affidata la cura della Chiesa universale». La prima domanda è dunque questa: il Sinodo dei vescovi, promuove in modo adeguato la collegialità vescovile, cum et sub Petro, nella responsabilità per la Chiesa? Il cardinale Ratzinger formulò la seconda domanda nel modo seguente: «Dobbiamo anche indagare se i metodi finora adottati sono veramente adeguati allo scopo del sinodo ». Cominciamo dalla seconda domanda. La questione del metodo accompagna il cammino del sinodo fin dal principio. Così il santo Papa Giovanni Paolo II disse, a conclusione della VI assemblea generale del Sinodo dei vescovi, il 29 ottobre 1983: «Forse questo strumento potrà esser ancora migliorato. Forse la collegiale responsabilità pastorale può esprimersi nel sinodo ancor più pienamente ». E Papa Francesco, nel 2014: «Trascorsi quasi cinquant’anni dall’istituzione del Sinodo dei vescovi, avendo anch’io perscrutato i segni dei tempi e nella consapevolezza che per l’esercizio del mio ministero petrino serve, quanto mai, ravvivare ancor di più lo stretto legame con tutti i pastori della Chiesa, desidero valorizzare questa preziosa eredità c o n c i l i a re » . Sýnodos significa “cammino insieme”. Sinodalità significa “essere insieme in cammino”. Chi è insieme in cammino, ha bisogno di una meta chiara e di una buona via verso tale mèta. Metodo viene da méthodos, “via verso qualcosa”. Il méthodos è del tutto decisivo, se si vuole che il sýnodos abbia un buon esito. I dibatiti sul metodo del sinodo non sono questioni secondarie di carattere organizzativo. Essi contribuiscono in modo molto decisivo a che il sýnodos conduca al fine. Quest’inseparabile comunione e relazione intrinseca di sýnodos e méthodos è già chiara agli inizi dell’istituzione del Sinodo dei vescovi, nelle parole con cui il beato Papa Paolo VI lo fondò: «Scrutando attentamente i segni dei tempi, cerchiamo di adattare le vie ed i metodi... alle accresciute necessità dei nostri giorni ed alle mutate condizioni della società » (Apostolica sollicitudo). Per considerare questa relazione intrinseca di sýnodos e méthodos propongo di rivolgere lo sguardo al “sinodo d’origine”, al modello originario dei sinodi, il cosiddetto “concilio degli apostoli” di Gerusalemme. Anche se mi è chiaro che il concilio di Gerusalemme non sia stato né un concilio né un sinodo nel senso più tardo dei termini, vale tuttavia la pena ritornare costantemente a questo inizio. Mi sembra, infatti, che proprio il metodo allora applicato sia indicativo per il cammino ulteriore del Sinodo dei vescovi. E possiamo a posteriori certamente affermare: questo primo sinodo ebbe una tale importanza, che ancora oggi viviamo dei suoi frutti. Cominciò tutto con un drammatico conflitto: «Ora alcuni, venuti dalla Giudea, insegnavano ai fratelli questa dottrina: “Se non vi fate circoncidere secondo l’uso di Mosè, non potete esser salvi” (Atti degli apostoli, 15, 1)». Non si trattava di una cosa da poco conto. Era in gioco il tutto del cammino cristiano. Non solo la dottrina, ma la vita. Non meraviglia che la questione suscitasse una grande discussione: «Poiché Paolo e Barnaba dissentivano e discutevano animatamente contro costoro, fu stabilito che Paolo e Barnaba e alcuni altri di loro salissero a Gerusalemme dagli apostoli e dagli anziani per tale questione» (15, 2). Non stupisce dunque che anche a Gerusalemme «sorse una grande discussione» (15, 7). Infatti, non appena si riunirono, «si alzarono alcuni della setta dei farisei, che erano diventati credenti, affermando: è necessario circonciderli e ordinare loro di osservare la legge di Mosè» (15, 5). Il conflitto circa il cammino dei pagani convertiti al cristianesimo mostra qualcosa di molto importante: tale conflitto venne espresso, lo si chiamò chiaramente per nome e se ne discusse apertamente. Questa parresía mi ricorda due frasi che Papa Francesco rivolse a noi padri sinodali l’ottobre scorso, all’inizio e alla fine dell’assemblea straordinaria del sinodo: «Una condizione generale di base è questa: parlare chiaro. Nessuno dica: “questo non si può dire; penserà di me così o così...”. Bisogna dire tutto ciò che si sente con parresía ... E, al tempo stesso, si deve ascoltare con umiltà e accogliere con cuore aperto quello che dicono i fratelli. Con questi due atteggiamenti si esercita la sinodalità. Per questo vi domando, per favore, questi atteggiamenti nel Signore: parlare con parresía e ascoltare con umiltà». Con questi due atteggiamenti si può arrivare anche ad “animate discussioni”. Così avvenne al concilio di Gerusalemme. E così è stato anche per il sinodo dello scorso ottobre. Nel suo discorso di chiusura, il 18 ottobre 2014, Papa Francesco si è riferito anche espressamente a queste discussioni cariche di tensioni: «Personalmente mi sarei molto preoccupato e rattristato se non ci fossero state queste tentazioni [il Papa ne aveva nominate cinque] e queste animate discussioni: questo movimento degli spiriti, come lo chiamava Sant’Ignazio (Esercizi spirituali, 6), se tutti fossero stati d’accordo o taciturni in una falsa e quietista pace. Invece ho visto e ho ascoltato — con gioia e riconoscenza — discorsi e interventi pieni di fede, di zelo pastorale e dottrinale, di saggezza, di franchezza, di coraggio e di parresía. E ho sentito che è stato messo davanti ai propri occhi il bene della Chiesa, delle famiglie e la suprema lex, la salus animarum ( cfr. can. 1752)». Papa Francesco ci incoraggia a non temere le discussioni, a viverle come quel “movimento degli spiriti” che fa maturare il discernimento degli spiriti e prepara i cuori a riconoscere ciò che il Signore stesso ci mostra, sì, quello che egli ha già deciso (cfr. Atti degli apostoli, 15, 7), quello che però noi, mediante la preghiera e le fatiche delle nostre discussioni, dobbiamo riconoscere. Con ciò torno di nuovo a considerare il “sinodo originario”, il “concilio di Gerusalemme”. Io vedo nel méthodos, nel modo, nel come la giovane Chiesa risolse questo drammatico conflitto, l’insegnamento più importante sul “cammino sinodale” della Chiesa primitiva. Essi non scrissero delle perizie teologiche contro cui poi scrivere e presentare delle controperizie. Il dibattito teologico è importante e imprescindibile. È normale che il sýnodos, che Papa Francesco ha cominciato scegliendo il tema “matrimonio e famiglia”, suscitasse in tutta la Chiesa un intenso dibattito teologico. In ciò vedo un vero guadagno per lo “sviluppo organico” della dottrina della Chiesa. Come dice il Catechismo della Chiesa cattolica: «Grazie all’assistenza dello Spirito Santo, l’intelligenza tanto della realtà quanto delle parole del deposito della fede può progredire nella vita della Chiesa: “con la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro”; in particolare “la ricerca teologica... prosegue nella conoscenza profonda della verità rivelata”; “con la profonda intelligenza che [i credenti] provano delle cose spirituali”; divina eloquia cum Tutlegente crescunt “le parole divine crescono insieme con chi le legge”; “con la predicazione di coloro i quali, con la successione episcopale, hanno ricevuto un carisma certo di verità» (n. 94). Così il dibattito teologico degli ultimi mesi è diventato un contributo importante per il cammino sinodale, come pure l’opera del Vaticano II non sarebbe pensabile senza il grande lavoro dei teologi nei decenni prima e durante il concilio. Che a volte tali dibattiti teologici fossero condotti, come accade ancora oggi, con un certo accanimento, con inasprimento e non sempre nello spirito del reciproco ascolto e dello sforzo di capire i motivi dell’altro, fa parte delle classiche tentazioni di cui Papa Francesco parlò alla fine dell’assemblea straordinaria del sino do. La Chiesa primitiva ha usato però un altro metodo per arrivare a una decisione e per risolvere il conflitto. Questo metodo è certamente importante anche per il dibattito teologico, ma lo è ancora di più per la riuscita del cammino sinodale. Ascoltiamo la narrazione dagli Atti degli apostoli: «Allora si riunirono gli apostoli e gli anziani per esaminare questo problema. Dopo lunga discussione, Pietro si alzò e disse: “Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta fra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi; e non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede. Or dunque, perché continuate a tentare Dio, imponendo sul collo dei discepoli un giogo che né i nostri padri, né noi siamo stati in grado di portare? Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati e nello stesso modo anche loro”» (15, 6-11). In sintesi: Pietro riferisce quello che Dio stesso ha fatto e in tal modo deciso. Il metodo che Pietro usa consiste nel raccontare le azioni di Dio. Possiamo anche dire: egli riferisce ciò che ha sperimentato come agire di Dio. Da ciò egli tira le conseguenze. Non si tratta del risultato di una riflessione teologica, ma di attenta osservazione e di ascolto dell’agire di Dio. Come reagisce il “sino do”, l’assemblea, al discorso di Pietro? «Tutta l’assemblea tacque» (Atti degli apostoli, 15, 12). Essi fanno proprio ciò che il Papa ci aveva pregato di fare nel sinodo dello scorso anno: Pietro parlò con parresía . E l’assemblea ascoltò “con umiltà”. La testimonianza di Pietro non viene subito “messa al vaglio” e criticata minuziosamente in una grande discussione. La sua parola viene accolta in silenzio e può così essere “meditata nel c u o re ” (cfr. Luca, 2, 19 e 51). Com’è importante questo silenzio e questo ascolto con il cuore! In tale atteggiamento essi sono poi pronti a ricevere anche la testimonianza di Paolo e di Barnaba: «Tutta l’assemblea tacque e stettero ad ascoltare Barnaba e Paolo che riferivano quanti miracoli e prodigi Dio aveva compiuto tra i pagani per mezzo loro » (Atti degli apostoli, 15, 12). Essi raccontavano! Non spiegavano trattati teologici. Non teorizzavano astrattamente sulla salvezza dei pagani, ma esponevano quello che avevano “visto e ascoltato» (cfr. Atti degli apostoli, 4, 20). Ciò che Pietro e Giovanni dissero davanti al Sinedrio vale ancor più per l’assemblea della Chiesa a Gerusalemme: «Noi non possiamo tacere su quello che abbiamo visto e ascoltato» (ibidem). Anche la testimonianza di Paolo e di Barnaba viene accolta, in un primo momento, dall’assemblea: non si discute subito, ma si ascolta e si accoglie nel cuore. «Quand’essi ebbero finito di parlare, Giacomo aggiunse: Fratelli, ascoltatemi. Simone ha riferito come fin da principio Dio ha voluto scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome» (Atti degli apostoli, 15, 13-14 ). Giacomo conferma ciò che Pietro ha già detto: Dio stesso è intervenuto e ha deciso la cosa. Come autorità egli riporta le parole dei Profeti che confermano in anticipo ciò che il Signore in quei giorni fa per «scegliere tra i pagani un popolo per consacrarlo al suo nome» (Ibidem). Così la Scrittura e l’esperienza concordano. L’assemblea, ascoltandole tutte e due, la Scrittura e l’esperienza, riconosce la via e la volontà di Dio. Si arrivò così alla decisione comune «degli apostoli, degli anziani e di tutta la Chiesa » (Atti degli apostoli, 15, 22). Il testo continua: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi, di non imporvi nessun altro obbligo al di fuori di queste cose necessarie: astenervi dalle carni offerte agli idoli, dal sangue, dagli animali soffocati e dalla impudicizia » (Atti degli apostoli, 15, 28- 29). Gli Atti degli apostoli parlano poi anche della recezione delle decisioni di Gerusalemme: «Quando l’ebb ero letta, si rallegrarono per l’incoraggiamento (paraklései ) che infondeva» (15, 31). Che bello, quando il risultato di un sinodo incoraggia i fedeli! Non sempre fu accolto, con una tale gioia, l’esito di un sinodo. Chiedo indulgenza per essermi dilungato sul “concilio d’origine” di Gerusalemme. Da ciò voglio cercare di formulare, infine, tre pensieri sul cammino del Sinodo dei vescovi. L’orientamento alla sacra Scrittura è essenziale per il nostro sýnodos, per il nostro cammino comune. Li sintetizzo in tre parole chiave: missione, testimonianza, discernimento. Innanzitutto: la finalità più intima del sinodo in quanto strumento di applicazione del Vaticano II può essere solo la missione. Il “sinodo originario” di Gerusalemme ha reso possibile la dinamica missionaria della Chiesa primitiva, l’ha fortemente promossa, portandola a fioritura. La consapevolezza fondamentale che noi tutti, giudei e pagani, «siamo salvati per la grazia del Signore Gesù» (Atti degli apostoli, 15, 11), ha aperto ai pagani la porta della Chiesa. Il successo dell’istituzione “Sinodo dei vescovi” si misurerà sulla sua capacità di promuovere «la vita della Chiesa e la sua dinamica missionaria » (Evangelii gaudium, n. 32). Il “Sinodo dei vescovi” può davvero essere un vettore trainante per il necessario “passaggio” a tutti i livelli ecclesiali «da una pastorale di semplice conservazione a una pastorale decisamente missionaria» (ivi, n. 15). Certamente il Sinodo dei vescovi non è un concilio. Esso deve sostenere il Papa nel suo servizio alla Chiesa e, insieme con lui, alimentare in chi vi partecipa, «l’entusiasmo per la missione», così caro sia a san Giovanni Paolo II (Redemptoris missio, 45), sia a Papa Francesco (Evangelii gaudium, 265). Ma come può, il sinodo, sostenere il Papa nella comune dinamica missionaria? Anche qui ci può essere di aiuto guardare al “sinodo originario” di Gerusalemme. Da cinquant’anni si è posta ripetutamente la domanda se il sinodo debba avere non solo un “voto consultivo” ma anche un “voto delib erativo”. Papa Francesco ha sempre sottolineato che il sinodo non è un parlamento, che è di diversa natura. Il beato Papa Paolo VI ha istituito il Sinodo dei vescovi come un nuovo organo consultivo a livello della Chiesa universale. Certo, i vescovi, in quanto membri del sinodo, rappresentano la loro Chiesa locale, con la loro vita, le loro gioie e preoccupazioni. Nei loro pastori c’è sempre anche, compresente, tutto il popolo di Dio. Ma i vescovi non sono rappresentanti come i deputati in parlamento. Rappresentanza ha un significato diverso nella struttura ecclesiale retta dal principio di comunione e conosciuto per fede. La fede però non può essere rappresentata ma solo testimoniata. E proprio questo accadde allora a Gerusalemme. Gli apostoli hanno dato testimonianza di quello che hanno visto e ascoltato. Se posso esprimere un desiderio per il futuro cammino del Sinodo dei vescovi: per favore orientiamoci al concilio di Gerusalemme! Parliamo in modo meno astratto e distaccato. Testimoniamoci reciprocamente quello che il Signore ci mostra e come noi sperimentiamo il suo agire. Ho avuto modo di partecipare al sinodo sulla nuova evangelizzazione. Ci sono stati molti interventi interessanti. Ma pochissimi hanno dato testimonianza di come noi stessi facciamo esperienza della missione e dell’evangelizzazione. A Gerusalemme Pietro, Paolo e Barnaba hanno parlato di avvenimenti e di esperienze. Noi restiamo troppo spesso nelle teorie, nei “si potrebbe” e “si dovrebb e”, quasi mai parliamo in maniera personale delle nostre esperienze di missione. Ma è questo che si aspettano i nostri fedeli! Infine, e proprio questo è il punto decisivo: a Gerusalemme la questione non era quella di un voto consultivo o deliberativo, ma del discernimento della volontà e della via di Dio. Discussioni accese, liti addirittura, e l’intenso disputare fanno naturalmente parte del cammino sinodale. Già a Gerusalemme fu così. Ma lo scopo dei dibattiti, lo scopo dei testimoni è il discernimento comune del volere di Dio. Anche quando si vota (come alla fine di ogni sinodo), non si tratta di lotte di potere, di formazioni di partiti (di cui poi i media con piacere riferiscono), ma di questo processo di formazione comunionale del giudizio, come lo abbiamo visto a Gerusalemme. L’esito infine, così speriamo, non è un compromesso politico su un minimo comune denominatore, bensì questo valore aggiunto, questo plusvalore che dona lo Spirito Santo, così da poter dire, a conclusione: «Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi» (Atti degli apostoli, 15, 28). Concludo: dall’inizio Papa Francesco ha detto che tutte le strutture giuridiche della Chiesa devono fare in modo di «diventare tutte più missionarie », affinché tutti siano aiutati ad assumere un atteggiamento missionario capace di evitare il «cadere preda di una specie d’i ntroversione ecclesiale» (Evangelii gaudium, n. 27). Allora il Sinodo dei vescovi, per il solo fatto di esserci e di continuare il suo cammino di maturazione al servizio dei successori di Pietro, è una grazia estremamente preziosa, della quale dobbiamo ringraziare lo Spirito Santo che ha suggerito al beato Papa Paolo VI la sua istituzione cinquant’anni orsono.

© Osservatore Romano - 18 ottobre 2015