L’Afghanistan e la fragilità della pace · Incognite e speranze dopo l’accordo tra Usa e talebani ·

afganistan f4a7924cbcac455962acbba4e6d978a5 1I soldati statunitensi iniziano a lasciare l’Afghanistan. Entro luglio passeranno da 12.000 a 8.600. Vorrebbe essere l’inizio della pacificazione del Paese, ma ci sono ancora tante incognite che alimentano più timori che speranze. Anche perché l’accordo è bilaterale tra gli Stati Uniti e i maggiori rappresentanti del movimento talebano, ma gli attori in campo sono molti di più, a partire dal Governo di Kabul che nel frattempo è in piena crisi dopo che

entrambi i contendenti alle ultime elezioni si sono proclamati presidente.

Martedì due cerimonie parallele di giuramento si sono svolte in due ali separate del palazzo presidenziale di Kabul. Ashraf Ghani ha tenuto la sua cerimonia di insediamento, dopo essere stato proclamato vincitore lo scorso 18 febbraio delle elezioni tenutesi lo scorso 28 settembre. Secondo quei risultati Ghani è stato confermato con il 50,67 per cento dei voti dopo un conteggio durato cinque mesi. Ma i risultati non sono riconosciuti dal rivale Abdullah Abdullah, già capo del precedente governo di unità nazionale. Abdullah a breve distanza da Ghani ha tenuto una cerimonia alternativa autoproclamandosi presidente. La sua rivendicazione si poggia sul fatto che su meno di tre milioni di persone che hanno votato (su 37 milioni di abitanti) quasi due milioni di schede sono state annullate. A prescindere dalle ragioni, il tutto dimostra il pericolo che viene al governo di Kabul da una così bassa legittimazione popolare. E un segnale giunge anche da due esplosioni che sono avvenute a Kabul a breve distanza dai luoghi delle due cerimonie. E per quanto Ghani e Abdullah siano due moderati che hanno ottimi rapporti con l’Occidente e in passato hanno saputo trovare l’accordo per un governo di unità (le precedenti elezioni presidenziali hanno visto gli stessi sfidanti e le stesse contestazioni), il timore di spaccature su base etnica non può non riaffiorare in Afghanistan, soprattutto se la comunità internazionale dovesse allontanarsi.

Ghani infatti è un pashtun che rappresenta soprattutto il sud del Paese, mentre Abdullah è mezzo pashtun ma anche mezzo tagico ed è alle popolazioni del nord che guarda la sua base di consenso. Il rischio del riaccendersi di secolari rivalità è forte, tanto quanto lo è quello della ripresa di potere e attività da parte dei signori della guerra locali, che prosperano nella confusione e lucrano sulla guerra civile e sui traffici che controllano, a partire da quello dell’oppio e della droga.

Questa fragilità strutturale del Paese potrebbe ulteriormente emergere in assenza di una presenza internazionale forte, non tanto e non solo sul piano militare quanto relativamente all’impegno per la stabilizzazione. Lo stesso presidente Donald Trump ha ammesso che dopo il ritiro americano non si può escludere un ritorno al potere dei talebani. Ciononostante l’accordo comunque storico per la pacificazione è stato firmato lo scorso 29 febbraio a Doha dai rappresentanti di Washington e da quelli dei talebani. Di conseguenza martedì è iniziato il ritiro dei primi militari del contingente statunitense. Questa prima fase prevede che entro luglio i soldati americani si riducano da circa 13 mila di oggi (circa 8.000 svolgono un ruolo di addestramento e di formazione delle truppe di sicurezza nazionale locali mentre altri 5.000 sono impiegati per operazioni anti-terrorismo) a un totale di 8.600, con la chiusura di circa 20 basi. I movimenti sono iniziati dalle basi militari di Lashkar Gah, capoluogo della provincia meridionale di Helmand, e da un’altra base in provincia di Herat, nell’est. In base all’accordo, se i talebani rispetteranno la loro parte, entro 14 mesi si ritireranno dall’Afghanistan tutti i militari occidentali, salvo alcuni contingenti che gli Stati Uniti considerano strategici.

I talebani, con cui Donald Trump nei giorni scorsi ha anche parlato personalmente al telefono, sembrano intenzionati a fare davvero la loro parte, in quanto sono interessati a che si completi il ritiro americano: in quel caso sanno benissimo che il loro peso specifico nel grande gioco politico dell’Afghanistan crescerebbe significativamente. Per questo sono disposti a garantire un calo delle violenze (ma non sono scomparse del tutto), a promettere che l’Afghanistan non sarà utilizzato come base per azioni terroristiche (come invece avvenne con l’Emirato degli anni Novanta che ospitò Bin Laden e Al Qaeda) e di recente hanno anche affermato di riconoscere il diritto delle donne a studiare e lavorare.

Ma proprio perché questo accordo appare nel reciproco interesse dell’amministrazione americana e dei leader talebani, non è visto con altrettanto entusiasmo altrove. A partire da Kabul dove la posizione del governo era piuttosto ostile anche se ora si è andata ammorbidendo, tanto che in questi momenti dovrebbero avviarsi le trattative dirette tra Kabul e talebani, e il governo ha alla fine accettato di iniziare a liberare 5.000 prigionieri come chiesto dagli Usa, ma solo progressivamente in base a quanto si impegneranno i talebani per la tregua. Ma intanto come detto questa già fragile apertura è minata alla base dalla duplicità delle fazioni al potere a Kabul.

C’è poi il tema internazionale: se le nazioni occidentali (e la Nato) sono pronte a seguire gli Stati Uniti sulla via del ritiro, e provano a far sì che questa tregua ponga vere basi politiche per una pacificazione, non tutti condividono gli stessi interessi e sono disposti ad accodarsi passivamente all’iniziativa di Trump. Anche per questo gli Stati Uniti stanno provando a far riconoscere ufficialmente alle Nazioni Unite il loro accordo con i talebani, ma incontrano molta ostilità. Infatti tra l’altro oltre a essere un accordo bilaterale e a includere un’entità non statuale, il trattato conterrebbe alcune clausole segrete sulla lotta al terrorismo che gli Usa non vorrebbero far vedere neanche ai membri del Consiglio di Sicurezza che dovrebbe approvare l’accordo. Una evidente complicazione.

D’altro canto lo stesso movimento dei talebani può dare garanzie solo per i soggetti che vi si riconoscono. E a parte un’infinità di divisioni e realtà minori non bisogna dimenticare che anche l’Is ha messo un solido piede nella regione e anzi ha dato il via a una gara per conquistare l’egemonia sugli insorti a colpi di attentati e violenze. Lo scorso 6 marzo l’Is ha ucciso più di 30 persone in un eclatante attentato a Kabul contro la comunità sciita Hazara. Ci sono regioni dove sono in corso già da molto tempo aperte battaglie tra i miliziani delle due fazioni jihadiste.
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di Osvaldo Baldacci