Come ribaltare la storia

voto-donnedi GIULIA GALEOTTI
Che senso ha promettere il diritto di voto a qualcuno che non è nemmeno libero di guidare, di viaggiare, di farsi curare o lavorare? Che senso ha contare come individui nell'agorà (avendo i diritti politici) quando nella domus e dintorni (cioè rispetto ai diritti civili) si è dipendenti dall'autorizzazione e dalla volontà altrui?
Questa, di fatto, l'osservazione di fondo che ha commentato, in Occidente almeno, la notizia dell'annuncio dato il 25 settembre scorso dal sovrano saudita Abdullah bin Abdul Aziz Al Saud: "Poiché ci rifiutiamo di marginalizzare le donne nei ruoli sociali permessi dalla sharia, abbiamo deciso che dal prossimo mandato le donne entreranno nell'assemblea consultiva. E che avranno il diritto a votare e a candidarsi per le elezioni amministrative". Tradotta in pratica, questa dichiarazione comporta che dal 2013 le saudite potranno entrare nel consiglio consultivo della Shura (di esclusiva nomina reale), mentre dal 2015 avranno l'elettorato attivo e passivo alle municipali. Nell'immediato, invece, nulla di nuovo: le elezioni amministrative che si sono svolte il 29 settembre, infatti, hanno visto ancora solo maschi all'urna.

Accanto all'entusiasmo di alcuni ("l'annuncio è una porta aperta da cui dovranno necessariamente passare altre riforme" secondo il direttore del quotidiano indipendente "Arab News", Khaled Al Maeena; "ora è tempo che altre barriere cadano per noi donne" ha detto la nota attivista Wajeha Al Huwaider), molti invece hanno gettato acqua sul fuoco: è solo propaganda. Una riforma cosmetica. "Lasciateci prima guidare e viaggiare" ha chiosato la giornalista Iman Al Qathani, nella sostanza in linea con tanti commentatori e commentatrici stranieri. È interessante: anche i quotidiani che commentarono il suffragio per le inglesi (1918), le tedesche (1919), le francesi (1944) e le italiane (1945) furono unanimi. Trovata pubblicitaria, nulla di più. Che di strategia politica si tratti, non v'è dubbio. Del resto, nella storia del voto alle donne è sempre stato così. Basti pensare al decreto De Gasperi-Togliatti che il 30 gennaio 1945 accordò l'elettorato attivo alle italiane: fu una misura arguta voluta dai due segretari nel tentativo di allargare i rispettivi bacini elettorali (il voto che la Gran Bretagna accordò alle donne nel 1918, invece, fu indotto dalla forzata gratitudine per l'impegno femminile durante i difficili anni della Grande guerra). Così la misura del sovrano saudita è stata letta da alcuni in Occidente come mossa che tenta di prevenire l'esplosione della primavera araba nel suo Paese (come ha ricordato Lucia Annunziata su "La Stampa", l'unica protesta ad aver lambito il Regno è stata condotta proprio dalle donne). Oggi come ieri, senza valutazione strettamente politica nessuno ha mai accordato nulla alle donne.
Le notizie vanno geograficamente, socialmente e storicamente contestualizzate: occorre ricordare che quelle di giovedì 29 settembre sono state le seconde elezioni municipali in Arabia Saudita (le prime sei anni fa), Paese in cui non esistono né consultazioni politiche, né partiti, né parlamentari eletti né libertà di stampa. Che le quasi dodici milioni di saudite (su un totale di ventisei milioni di abitanti) difettano dei diritti civili. Che l'Arabia è il solo ordinamento al mondo che alle donne non rilascia nemmeno la patente. Né le signore possono viaggiare (all'estero o in patria) senza il permesso del marito (o del tutore maschio che sia), né, senza autorizzazione, possono lavorare o sottoporsi a cure mediche. Solo dal 2006, inoltre, le donne hanno il diritto di richiedere in autonomia la carta d'identità (necessaria per sposarsi), e nel maggio scorso ha fatto il giro del mondo la foto delle prime donne autorizzate a esercitare l'avvocatura. Del resto, se negli ordinamenti occidentali da fine Ottocento in poi i diritti politici femminili sono stati accordati dopo la concessione di quelli civili, la novità saudita offrirà spunti interessanti per giuristi e politologi. Se dunque la storica decisione del Re saudita è un gesto riconducibile a valutazioni politiche, l'intento, però, non ne sminuisce affatto la portata: la storia delle donne dimostra che dall'Ottocento in poi esse hanno saputo approfittare dell'uso propagandistico di cui sono state oggetto. Le celeberrime suffragette inglesi esattamente come le meno note (seppur assolutamente indispensabili) emancipazioniste cattoliche italiane; le borghesi francesi come le antischiaviste statunitensi: tutte hanno compreso che il suffragio poteva essere un'arma politica spendibile sul terreno degli equilibri politici. Negare, o anche solo ridimensionare, il senso dell'apertura annunciata dal sovrano saudita stante le condizioni generali delle donne nel Paese, significa - una volta di più - nutrire scarsa fiducia nel femminile. Approfittando della "situazione", siamo infatti certe che le saudite sapranno tradurre al meglio il diritto che finalmente il potere accorda loro. Non solo grazie al tasso di alfabetizzazione muliebre (il 70,8 a fronte dell'84,7 per cento di quello maschile), non solo in virtù dell'uso brillantemente spudorato e geniale che queste donne fanno di internet e dei social network, non solo per il fermento attestato che le anima, ma perché la storia degli ultimi due secoli ci racconta di eroine intrepide che, volute come pedine di giochi per soli uomini, sono invece state in grado di trasformare marginali e timide crepe in voragini capaci di allargare gli orizzonti delle comunità di appartenenza.
"Mia cara Kitty", chiedeva Patrick (uno dei personaggi del romanzo Gli anni di Virginia Woolf uscito nel 1937), "queste brave donne stanno forse meglio ora che hanno avuto il voto?". Seppur a fatica, senza fanfare nel breve periodo ma con effetti sudati e preziosi nel lungo, decisamente sì. Stanno meglio loro, e le società tutte.

(©L'Osservatore Romano 30 settembre 2011)