Il cardinale Vegliò sul viaggio del Papa a Lesbo

mons vegliodi NICOLA GORI

Un gesto concreto di solidarietà e di vicinanza verso tanti disperati in fuga da guerra e miseria. È questo, per il cardinale Antonio Maria Vegliò, il significato della visita che Papa Francesco compirà sabato 16 aprile nell’isola di Lesbo. Il presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti ne parla in questa intervista rilasciata al nostro giornale in occasione dell’incontro annuale del Comitato cattolico internazionale per gli zingari (Ccit) sul tema: «All’incrocio: l’Europa, le Chiese e le culture di fronte alla misericordia».

Perché la scelta di Francesco di recarsi a Lesbo?
L’isola di Lesbo, come Lampedusa, è ormai diventata uno dei volti della crisi umanitaria in atto. Milioni di uomini, donne e bambini, tante volte da soli, in fuga da guerre e persecuzioni politiche e religiose, sono obbligati a intraprendere viaggi irregolari e drammatici nel disperato tentativo di mettersi in salvo e, con il desiderio di chiedere asilo, approdano su queste coste simbolo di speranza. La visita del Papa è un segno concreto della sua vicinanza a migranti e rifugiati e riporta in primo piano il problema migratorio in Europa.

Quali sono le condizioni dei profughi sull’isola?
A Lesbo, come spesso accade nei luoghi di sbarco, le condizioni per un’accoglienza adeguata sono insufficienti e gli arrivi sono continui, soprattutto da Siria, Iraq, Afghanistan e Somalia. Proprio sul dovere di offrire accoglienza e sul rispetto e la tutela della dignità di chi è costretto a partire, Francesco vuole attirare l’attenzione del mondo intero. La visita del Pontefice, assieme al patriarca Bartolomeo e all’a rc i v e s c o v o di Atene e di tutta la Grecia Hieronymos II, è un gesto ecumenico cristiano concreto; un cuor solo e un’anima sola per affrontare il dramma della migrazione forzata e per ribadire insieme, nel nome di Cristo, l’importanza della responsabilità fraterna, guardando negli occhi le persone in fuga per le quali la sorte viene spesso decisa con accordi cinici e ignorando le vere ragioni alla base della loro tragedia.

La visita del Papa arriva in un momento critico per l’Unione europea.
È un momento in cui l’E u ro p a , con il recente accordo con la Turchia, continua ad alzare barriere, a chiudere i confini e a ledere i diritti fondamentali di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Siamo di fronte a un accordo miope che non consente una gestione dei flussi migratori nel rispetto della persona. La politica migratoria dei Governi ha bisogno di lungimiranza e coesione attraverso azioni mirate per porre fine alle cause dei “viaggi della speranza” di milioni di persone che troppo spesso si trasformano in “viaggi della morte”. È necessario dare vita a canali umanitari sicuri per permettere un controllo dei flussi migratori e per vigilare sul rispetto dei diritti fondamentali della persona; questo il Papa lo dice chiaramente con il suo viaggio apostolico e con la volontà di incontrare personalmente chi è sbarcato sulle coste di Lesbo carico di dolore e di fiducia.

Il fenomeno migratorio mette in gioco la capacità dell’Europa di confrontarsi con etnie e culture diverse. Anche i rom e i sinti sono una sfida per un continente percorso spesso da ondate di “anti-zingarismo”. Che cosa si può fare per arginare questa deriva?
Insieme al traffico di donne e bambini all’interno delle comunità gitane, questo fenomeno costituisce una delle piaghe particolarmente vergognose per l’Europa e più dolorose per il popolo rom. L’anti-zingarismo è un fenomeno sociale complesso che troppo spesso sfocia in atti di violenza, parole di ostilità, sfruttamento e discriminazione. Il più delle volte, il disprezzo nasce da stereotipi presi per veritieri o da comportamenti inadeguati di singoli gitani resi oggetto di generalizzazioni. Per arrestare questo fenomeno è importante che l’impegno sia congiunto da parte di tutti i membri della società. Sono numerosi gli strumenti studiati appositamente per la lotta all’anti-zingarismo e per favorire l’integrazione di rom e sinti. Uno di questi è la Declaration on the rise of anti-gypsyism and racist violence against rom in Europe, adottata nel 2012 dalla commissione dei ministri, che condanna i «gravi episodi di violenza razzista e le forme di retorica stigmatizzante» e invita ad “astenersi dall’uso di una retorica anti-rom, in particolare durante le campagne elettorali». Un altro strumento è il Piano d’azione congiunto per la formazione di mediatori rom (Romed) adottato dal Consiglio d’Europa e dalla Commissione europea nel 2011. Qui viene presentata la mediazione come uno dei mezzi più efficaci per superare le disuguaglianze. Di recente, inoltre, il Comitato dei delegati dei ministri (Cm) ha elaborato il Piano di azione tematico sulla inclusione dei rom e dei travellers per il triennio 2016-2019, in cui vengono individuate tre grandi priorità: affrontare con maggiore risolutezza pregiudizi, discriminazione e crimini contro le popolazioni gitane; promuovere politiche di inclusione delle persone più vulnerabili, con particolare attenzione ai bambini, ai giovani e alle donne rom; promuovere modelli innovativi per la soluzione di problematiche specifiche a livello locale.

La misericordia può essere una strada concreta, come suggerisce il tema dell’incontro del Ccit?
La misericordia deve essere il punto di convergenza per la Chiesa, la società e i rom e sinti, nella ricerca di approcci adeguati per favorire nuove forme di convivialità basate su giustizia, solidarietà, fratellanza e pace. Essere misericordiosi nei loro confronti non significa soltanto offrire assistenza sociale, materiale, sociale e spirituale. Le comunità ecclesiali sono chiamate a valorizzare la specificità e la cultura del popolo gitano e ad accoglierlo nella sua diversità. La partecipazione attiva di rom e sinti alla vita della comunità ecclesiale permette una rispettosa integrazione sociale intesa non come assimilazione, ma come coinvolgimento nelle politiche e nelle decisioni che li riguardano con il pieno rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni.

Tra le difficoltà che rom e sinti incontrano ci sono la discriminazione e la negazione dei diritti al lavoro, all’istruzione, alle cure mediche, alla casa. Quale ruolo può avere la Chiesa nella risoluzione di questi problemi?
La comunità ecclesiale è chiamata a trovare nuovi modi e nuove strategie per eliminare le cause dell’esclusione e della discriminazione e a mettersi in prima linea per difendere e proclamare i diritti inviolabili dei gitani. In questa direzione si muovono già numerose comunità religiose impegnate nel campo dell’educazione e della formazione professionale dei gitani. Sono tanti i sacerdoti, le religiose e gli operatori pastorali che condividono anche lo stile di vita di rom e sinti e seguono i loro spostamenti facendosi portavoce della Chiesa nell’esortarli a vivere in armonia con la comunità di cui fanno parte.

Ma nelle parrocchie esiste una sensibilità pastorale nei confronti dei rom e dei nomadi in genere?
Sì, alcuni casi concreti esistono e dovrebbero essere imitati. Ci sono diocesi e parrocchie che hanno maturato progetti e programmi per le popolazioni rom e sinti, come quella di Dublino che ha fondato nel 1980 la prima parrocchia per tutti i viaggianti — i travellers — che si trovano ai margini della Chiesa locale. Un altro esempio è la diocesi di Vicenza, dove è stata creata una commissione di cui fanno parte i rom presenti nel territorio ed è stato aperto uno sportello rom e sinti, con funzione di segretariato sociale che offre loro la possibilità di accedere al microcredito. Le esperienze e i modelli già in atto dovrebbero essere utilizzati per potenziare l’impegno pastorale delle Chiese locali con forte presenza di popolazioni gitane. Purtroppo, non tutte le parrocchie e le diocesi hanno ancora un’apertura così ampia; ecco perché, nel dicembre 2005, il nostro dicastero ha pubblicato Orientamenti per una pastorale degli zingari, il primo documento della Chiesa dedicato a questo tema.

© Osservatore Romano - 10 aprile 2016