Una storia senza giustizia

shoahdi ANNA FOA

Fra il settembre 1943 e la Liberazione del 25 aprile 1945, le SS naziste e le truppe della Wermacht perpetrarono in gran parte d’Italia uccisioni indiscriminate di civili, massacri di donne, vecchi e bambini, violenze e ruberie di ogni genere. Molte migliaia di civili furono uccisi nelle aree montane e di campagna. Uno di questi eccidi, quello di Marzabotto, con oltre 700 civili uccisi, fu tra i più sanguinosi che si siano verificati nell’E u ro p a occidentale sotto l’occupazione nazista.
I massacri furono portati avanti, contrariamente a quanto spesso si crede, anche da reparti della Wermacht e non solo dalle S S. Subito dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, reparti delle SS al nord colpirono in maniera autonoma e senza ordini da Berlino gruppi di ebrei italiani (la strage di Meina) o stranieri (a Cuneo). Il grosso delle violenze contro i civili al sud accompagnò la linea del fronte e la ritirata tedesca, senza che vi fossero vere e proprie azioni partigiane a provocarle. Questa fase, che fece al sud circa milleseicento vittime civili, vecchi donne e bambini rastrellati nelle loro case nelle campagne, fu portata avanti da reparti della Wermacht: distruzione totale degli edifici e delle infrastrutture, requisizioni di tutti i beni alimentari, deportazione al lavoro forzato degli uomini, massacro di quanti, indipendentemente dal sesso e dall’età, non avevano obbedito agli ordini di evacuazione. Una seconda fase di eccidi, la più sanguinosa e protratta, in cui persero la vita molte migliaia di civili, riguarda l’Italia centro-settentrionale, e in particolare la Toscana e l’EmiliaRomagna, fra la primavera e l’autunno 1944. In questa fase gli eccidi accompagnarono la lotta antipartigiana e mirarono più che a colpire i partigiani veri e propri, più difficili da combattere, a far loro terra bruciata intorno attraverso rappresaglie sanguinose contro la popolazione. Gli episodi non furono sempre collegati ad azioni della Resistenza, ma spesso avvennero senza che vi fosse stato nessun fatto specifico a scatenarle. Questi eccidi furono attuati tanto dalle SS che dalla We r m a c h t . Una terza e ultima fase accompagnò la fine dell’occupazione e la ritirata delle truppe tedesche nell’Italia settentrionale e fu anch’essa opera della Wermacht. In totale, le vittime civili degli eccidi nazisti furono in tutta Italia oltre diecimila. Da quei giorni sono passati settant’ anni, ne stiamo celebrando l’anniversario, e sappiamo che pochissimi dei responsabili di quegli eccidi hanno reso conto alla giustizia dei loro atti criminali. Molto è stato scritto dagli storici in Germania e in Italia sulla mancata Norimberga italiana, sull’armadio della vergogna, occultato in Italia nel dopoguerra e ritrovato nel 1994, dove era raccolto il materiale istruttorio sui crimini di guerra commessi in Italia durante l’o ccupazione. Molto è stato anche scritto, da diversi punti di vista, sulle motivazioni di questa mancata giustizia, che salvaguardava insieme ai criminali nazisti i loro complici italiani oltre che coprire d’oblio i crimini commessi dall’esercito italiano in Iugoslavia e in G re c i a . Meno è stato invece scritto sulle motivazioni oltre che sulle modalità, di questi crimini di massa, sulla formazione culturale e politica dei perpetratori, sulla loro origine sociale. L’amplissimo e assai documentato studio, ora tradotto in italiano da Einaudi, di Carlo Gentile, storico dell’Università di Colonia, esperto in numerosi processi contro criminali di guerra nazisti (I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, Torino, 2015, pagine XII, 580, euro 45) viene a colmare questa lacuna e si presenta come l’opera più importante e completa scritta su questi temi. Che cosa muoveva gli autori delle stragi perché colpire civili indiscriminati, in base a quale motivazione, ideologia, violenza? Quale fu la parte delle leggi durissime emanate dal comandante Kesselring contro la guerra partigiana, che autorizzavano le stragi della popolazione e quale invece quella della violenza spontanea dei vari reparti, la paura della lotta partigiana, la mancata distinzione tra civili e partigiani, la reazione contro il “tradimento” degli italiani? E quanto contò nella radicalizzazione della violenza l’esp erienza precedente dei protagonisti di queste vicende, l’aver operato nei campi di concentramento, sul terribile fronte orientale, in Polonia e in Russia, o altro ancora? Il quadro che ne emerge è differenziato e complesso, le motivazioni diverse. Al centro del quadro restano comunque alcuni specifici reparti: per le SS, la divisione Reichsführer, per la Wermacht il reparto esplorante dei paracadutisti Hermann Goering, ambedue attivi in una gran parte degli eccidi. Al centro del libro, l’analisi dettagliata di alcuni episodi particolarmente rilevanti, quali il massacro di Sant’Anna di Stazzema e quello di Monte Sole, presso Marzabotto. Altrettanto significativi i percorsi di vita e di apprendistato all’ideologia nazista e alla violenza di alcuni dei protagonisti di questi crimini, e non ultima la loro adesione al neopaganesimo nazista, che spiega in parte, insieme all’appoggio di molti preti e parroci alla lotta partigiana, la frequenza dell’assassinio di preti e frati. Al cuore del libro è naturalmente la guerra partigiana, reale o solo temuta dagli invasori. La lotta antipartigiana dell’esercito tedesco in Italia assume in queste pagine, attraverso le fonti tedesche citate, un rilievo non inferiore a quello della guerra regolare al fronte contro gli angloamericani: ambedue le forme di guerra, non solo la guerra antipartigiana, provocarono infatti sanguinose rappresaglie fra i civili. I tedeschi e i nazisti non sterminarono donne, vecchi e bambini solo per combattere, a modo loro naturalmente, la lotta partigiana, ma disseminarono di vittime civili anche la loro ritirata dalle truppe angloamericane. Le date apposte sui cippi che sono disseminati in Italia a ricordo di quei morti sono spesso le stesse di quelle della Liberazione. E a volte i primi a imbattersi nelle cataste di morti ancora caldi furono proprio i liberatori.

© Osservatore Romano - 24-25 aprile 2015