La reciprocità come stile

bartolomeo-e-pap-francescoMarianita Montresor, presidente del Sae (Segretariato attività ecumeniche) intravede nell'atteggiamento del Papa "una premessa importante per iniziare una riflessione - in casa cattolica - sulla possibilità di un diverso modo di esercitare il servizio petrino". Emerge inoltre un "desiderio di sinodalità episcopale, come già auspicato dal Concilio"


Papa Francesco, all’inizio del suo ministero, nell’incontro con i rappresentanti delle Chiese e delle comunità ecclesiali e di altre religioni, ha ribadito “la ferma volontà di proseguire nel cammino del dialogo ecumenico”, sottolineando che la “testimonianza libera, gioiosa e coraggiosa” della fede sarà “il nostro migliore servizio alla causa dell’unità tra i cristiani, un servizio di speranza per un mondo ancora segnato da divisioni, da contrasti e da rivalità”. Gigliola Alfaro, per il Sir, ha chiesto a Marianita Montresor, presidente del Sae (Segretariato attività ecumeniche), cosa si aspetta dal pontificato di Francesco dal punto di vista del cammino ecumenico.

Quanto lo stile “nuovo”, umile e semplice, e i gesti del Papa potranno agevolare il dialogo?
“Per rispondere vorrei trarre spunto dall’appello ripetuto del Papa: ‘Pregate per me’. Sono convinta che sia un appello tutt’altro che formale, che esprima una profonda verità: la necessità di camminare insieme, di sentirci tutti responsabili di un cammino di Chiesa che ha bisogno di profonda conversione in tutti i suoi membri. L’ho sentito come un appello alla responsabilità, perché c’è l’idea di una reciprocità che si deve attuare, che deve essere il fondamento delle relazioni dentro la Chiesa. Allora, lo stile sobrio, la semplicità, l’attenzione ai poveri, le parole e i gesti finora compiuti dal Pontefice saranno significativi se si tradurranno in ciascuno di noi in impegno per un processo di conversione. Non credo, invece, che possa aiutare i cattolici e l’ecumenismo la sovraesposizione mediatica a cui stiamo assistendo in questi giorni: penso che sarebbe preferibile abbassare un po’ i riflettori, proprio in nome di quella sobrietà che il Papa ha mostrato di desiderare. Ritengo che le analisi dettagliate che già abbiamo sentito riguardo a questo o a quel particolare gesto o frase pronunciata da Francesco siano premature. Guardiamo al presente, a quello che ora il Pontefice sta facendo, non per dare un giudizio, ma piuttosto per chiederci: questi gesti, queste parole, questo stile di relazione, che lui ha in un certo senso inaugurato, che cosa dice a me, come stimola la mia conversione? L’appello a favore dei popoli, il richiamo alla pace, alla giustizia, al rispetto dell’ambiente devono risuonare dentro ciascuno di noi perché possiamo sentirci tutti implicati, tutti responsabili. Proprio il Papa, parlando ai fedeli presenti in piazza San Pietro il giorno dell’elezione, si è soffermato sullo stretto rapporto che ci deve essere tra vescovo e popolo, popolo e vescovo”.

Il fatto che Francesco dal primo momento si sia presentato come vescovo di Roma, Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese, può essere un aiuto nel dialogo ecumenico?
“L’essersi presentato come vescovo di Roma, senza mai usare il termine Papa, né in riferimento a sé né a Benedetto XVI, è stata forse la più grossa sorpresa da un punto di vista ecumenico. Ora non possiamo nasconderci il fatto che, al di là dell’atteggiamento del singolo Papa, è l’autorità universale riconosciuta dai cattolici al vescovo di Roma che fa problema alle altre Chiese. C’è una complessità, riguardo a questo tema, che non possiamo eludere. Penso, tuttavia, che l’atteggiamento di Francesco sia una premessa importante per iniziare una riflessione - in casa cattolica - sulla possibilità di un diverso modo di esercitare il servizio petrino. Già l’enciclica ‘Ut Unum Sint’ di Giovanni Paolo II aveva auspicato questo ripensamento. Ora non solo Papa Bergoglio ha parlato di sé come vescovo di Roma, ma anche si è sempre riferito ai cardinali chiamandoli fratelli. Questo può indicare un desiderio di una sinodalità episcopale, come già auspicato dal Concilio. E sinodalità significa prima di tutto un profondo ascolto reciproco: questo è un elemento fondamentale anche del metodo ecumenico”.

Il Papa viene dall’Argentina, dove ha già vissuto esperienze ecumeniche positive. Quanto questa sua esperienza di pastore “preso quasi dalla fine del mondo” potrà aiutare il dialogo anche nel Vecchio Continente, dove si sono consumate tante divisioni?
“Non conosco con precisione le esperienze ecumeniche che Papa Francesco ha fatto come arcivescovo di Buenos Aires, ma comunque avere un Papa sudamericano può aiutare gli europei, i cattolici evidentemente (ma forse il messaggio può essere recepito anche da non cattolici), a decentrarsi, a non sentirsi in certo modo l’ombelico del mondo; ad abbandonare l’eurocentrismo a livello culturale in senso lato, ma anche propriamente teologico, che ha connotato l’età moderna e contemporanea. Mettersi in un ascolto autentico dell’altro, delle altre culture, senza pregiudizi e senza atteggiamenti più o meno larvati di superiorità, è fondamentale per ogni uomo. Einstein diceva che la mente è come un paracadute: non funziona se non si apre. Questa apertura è anche condizione indispensabile al dialogo ecumenico”.

Le Chiese cristiane sono molto divise sui temi etici: come pensa che Papa Francesco possa dare un contributo in questo campo?
“Conosciamo il Papa da pochi giorni... Non possiamo azzardare previsioni, anche come forma di rispetto per la persona, a cui va lasciato il tempo di valutare con libertà i problemi. D’altra parte, non dobbiamo caricare il Papa in prima persona di una responsabilità che non compete solo a lui. Altrimenti abdicheremmo al compito di pregare e di pensare anche noi, di tentare un discernimento alla luce del Vangelo, che ci riguarda tutti. Certo, mi auguro che sui temi etici possa esserci innanzitutto un ascolto pieno di rispetto vicendevole, senza preclusioni o giudizi aprioristici nei confronti delle scelte delle altre Chiese. È la premessa per un confronto franco che mi pare ancora non ci sia o sia limitato a quelle Chiese che condividono lo stesso orizzonte interpretativo”.

Il Papa ha parlato anche della necessità di mantenere viva la sete dell’Assoluto, perché non prevalga una visione della persona umana a una dimensione, secondo cui l’uomo si riduce a ciò che consuma e produce: cosa possono fare insieme le Chiese cristiane in questo senso?
“Per i cristiani l’avvento del Regno è la grazia di diventare radicalmente umani, di raggiungere cioè quella pienezza di umanità voluta dal Padre e inaugurata da Cristo nello Spirito. Coltivare la sete dell’Assoluto è un aspetto di questa ricerca di umanizzazione. E qui si apre un capitolo abbastanza nuovo per le Chiese. Esse sono state sempre convinte dell’importanza, a livello ecumenico, di un’azione sociale comune, penso ad esempio all’Assemblea ecumenica di Basilea su ‘Pace, giustizia, salvaguardia del creato’, ma sono poco abituate, mi pare, a mettere in comune la propria esperienze spirituale e a testimoniare insieme, con umiltà e franchezza allo stesso tempo, l’impatto che l’incontro con Cristo ha sulle loro vite. Penso sia giunto il momento che questo debba trasparire e, forse, dobbiamo insieme inventare i modi”.

 

© www.agensir.it - 2 aprile 2013