Ad Haifa il dialogo è di casa

peace-3-languagesdi EMANUELA C. DEL RE
Albero di Natale e Menorah a fianco l’uno dell’altro, illuminati, decorano la Via Ben Gurion, sovrastata dai giardini del tempio Baha’i, simbolo della città di Haifa. Si è appena concluso un mese di festeggiamenti qui, nella città che si considera un modello di coesistenza tra le comunità di ebrei e arabi. La «Festa delle feste» (Chag Ha’Chagim), così si chiama, è stata istituita diciotto anni fa, in un momento in cui la tensione tra ebrei e arabi in città era altissima. Quell’anno a dicembre cadevano per caso insieme Eid Al-Adha, Natale e Hanukkah, per cui il centro «Beit Hagefen », sostenuto dal Comune e impegnato da anni nel promuovere il dialogo tra arabi ed ebrei, insieme all’allora sindaco Amran Mizra, decise di festeggiarli tutti insieme, per dare un segnale forte. La festa è diventata così importante da richiamare oltre duecentomila visitatori da tutto il Paese e anche dall’e s t e ro . Venerdì e sabato, per tutto dicembre, nel quartiere misto Wadi Nisnas, ci sono stati concerti in piazza e nelle chiese, mostre di artisti contemporanei, spettacoli, mercati, parate. L’arte, affermano gli artisti coinvolti, è il mezzo migliore per promuovere il dialogo, perché è un linguaggio universale. Tutto è incentrato sulla collaborazione tra le comunità, per cui piccole orchestre classiche e rock band, ballerini, burattinai, attività per bambini, vedono sempre impegnati arabi ed ebrei insieme. Partecipano anche i Baha’i, e i cristiani di ogni chiesa, da quella maronita a quella greco ortodossa, alla cattolica. Il fatto stesso che la festa si tenga nel quartiere misto arabo-ebraico è simbolico, e d’altra parte vi è anche la sede di «Beit Hagefen», proprio ai piedi del monte Carmelo. Haifa è una città che anche topograficamente esprime la stratificazione sociale, perché ai piedi del Carmelo ci sono gli arabi, nei quartieri più disagiati, e poi poco più su nella fascia centrale gli immigrati russi, numerosi e per lo più benestanti; in cima, negli eleganti quartieri che guardano sulla splendida baia, risiedono gli ebrei. Per questo la domanda che bisogna porsi non è tanto chi va alla «Festa delle feste», ma chi non va, come affermano Amalia Sa’ar, antropologa dell’Università di Haifa, e Rolly Rosen, dell’associazione Shalit. Di certo vi è una parte della società di Haifa sensibile alla necessità di dialogo, ma c’è anche una parte di persone che restano distanti, chiuse nella loro quotidianità, legate alla loro cultura e religione che esaurisce tutta la sfera sociale. E d’altra parte in Israele tutto il sistema dell’istruzione è separato e i bambini arabi ed ebrei crescono con lingua e credo diversi, per incontrarsi veramente solo da adulti, all’università. Eppure, afferma il sindaco Yona Yahav, Haifa è un vero modello di coesistenza; ma non si riesce a esportarlo altrove nel Paese, perché mancano le condizioni economicosociali che hanno permesso un simile successo, la risposta. La dimensione economica è fondamentale, afferma suor Emanuela Verdecchia, che dirige l’ospedale italiano di Haifa da vent’anni: il segreto della coesistenza sta nel fatto che gli arabi qui si sono affermati nel mondo del lavoro, conducono molte attività commerciali e sono presenti in diversi ambiti professionali, come quello medico, che permette loro di sentirsi parte attiva della società a tutti gli effetti. In ospedale, dice, la sofferenza fa crollare le barriere, e le persone si aiutano tra loro senza pensare a quale comunità appartengono. Qui il clima sociale sembra sereno. La «Festa delle feste» contribuisce a creare un senso di unità: il 22 dicembre ha invaso anche Via Ben Gurion con diversi palchi allestiti per la musica, bancarelle, giocolieri, e la ormai tradizionale parata di Babbo Natale, accompagnato dalle associazioni di scout, con i loro tamburi. L’immaginario occidentale è troppo superficiale per ricordarsi che esiste un intero mondo di arabi cristiani. Alla «Festa delle feste» è un fiorire di simboli cristiani, di bimbi arabi mascherati da Babbo Natale, di automobili con adesivi sulla carrozzeria con rosari e immagini di Cristo e della Madonna. E le chiese sono piene, piccoli microcosmi di spiritualità e di aggregazione. E intanto è cominciato anche Channukah e le Menorah affiancano gli alberi di Natale. Musulmani ed ebrei qui sono presenti con volti diversi, dagli ahmanddyya che promuovono una dimensione religiosa dell’islam, agli ebrei impegnati attivamente nel dialogo interreligioso. Rabbi Golan Chorin ha citato il Talmud all’inaugurazione della «Festa delle feste»: proprio il passo che recita «Chi salva una vita salva il mondo intero». Di certo vi sono contraddizioni e contrasti, ma non sono motivo di conflitto violento proprio per l’equilibrio che si è creato, e perché si sta creando una classe media. Haifa, città che si impegna in tutto e per tutto per la coesistenza pacifica, raggiungendo risultati che anche il noto e amato scrittore di origine irachena Sami Michael, presidente dell’Associazione per i diritti civili in Israele, ritiene straordinari. Passi dei suoi romanzi sono esposti in quadri scritti in ebraico e arabo in tutta la zona del quartiere arabo, e questa città non si è mai fatta scrupolo di intitolare strade ad arabi. D’altra parte è la stessa amministrazione pubblica che finanzia la festa e molte altre attività per il dialogo, anche se le polemiche non mancano. Il nuovo direttore della «Festa delle feste», Asaf Ron, afferma che la macchina organizzatrice, che promuove dialogo e rispetto, è tale da travolgere in senso positivo anche gli scettici, perché la festa onora tutti quelli che vivono ad Haifa. Partecipando alla festa abbiamo provato il senso di una enorme onda di energia mossa dalle attività di centinaia di persone — ebrei e arabi cristiani e musulmani — che si impegnano quotidianamente nella promozione del dialogo a tutti i livelli, chi con centri d’ascolto chi con scuole di ballo da sala miste arabiebrei. Secondo Edna Vranesky, nota intellettuale ebrea, tutto questo lavoro, questo impegno, questo «credo universale» non è vano. E la «Festa delle feste» ne è l’esempio più bello. Moody Kablawi un giovane arabo di sedici anni, rapper in una rock band formata naturalmente da arabi ed ebrei, che ha suonato su uno dei palchi allestiti nel Wadi Nisnas durante la festa, sorride e dice che la pace ci sarà, perché lui ci crede, e questo basta. A lui, a tutti noi.

© Osservatore Romano - 29 dicembre 2011