Noi e la loro croce

pendente-croce-legno-d-ulivo-terra-santa“Un ulteriore segno di vicinanza e di solidarietà alle Chiese di Terra Santa ma anche di collegialità con altri vescovi nordamericani ed europei per esprimere ulteriore attenzione alle sofferenze di questi luoghi”. Con queste parole, mons. Riccardo Fontana, arcivescovo della diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro, con oltre 20 anni di servizio diplomatico per la Santa Sede, spiega al SIR la sua presenza alla visita pastorale del Holy Land Coordination, l’organismo che raduna presuli rappresentanti delle Conferenze episcopali di Usa, Canada e Ue e che, su mandato della Santa Sede, dal 1998, si reca in Terra Santa con lo scopo di sostenere e incoraggiare i cristiani locali. Dal 7 al 12 gennaio i vescovi del Hlc (Canada, Stati Uniti, Francia, Spagna, Italia, Gran Bretagna, Paesi Scandinavi e Germania) hanno visitato le comunità cristiane di Gaza, Nablus, Gerusalemme, Haifa, discusso temi quali la primavera araba, la violenza dei coloni israeliani, le prospettive di pace in Medio Oriente, il dialogo interreligioso e incontrato, tra gli altri, il vice ministro degli Esteri di Israele, Danny Ayalon, e il capo negoziatore palestinese, Saeb Erekat.

Eccellenza, qual è il suo bilancio di questa visita?
“Mi hanno colpito molto le parole del patriarca Twal che ha detto: ‘Non sono incaricato di risolvere il problema dell’occupazione militare o sciogliere altri nodi che stringono questa Terra, ma ho la missione di condurre il suo popolo in Paradiso’. E mi ha colpito ancora più l’attenzione, direi paterna, del patriarca verso i giovani militari israeliani costretti a vivere con il mitra in mano formandosi così alla cultura della contrapposizione, come se tutto il resto del mondo fosse un nemico dal quale difendersi. Non voglio fare un facile irenismo, non sottovaluto le reali difficoltà presenti sul terreno, ma voglio sottolineare come sia necessario volare un poco più alto. Noi abbiamo visto come questa Chiesa di Terra Santa si misura con una situazione drammatica senza perdere la dimensione trascendente. Twal lo ha ripetuto spesso, anche nella celebrazione finale: ‘Siamo la Chiesa del Sepolcro vuoto ma anche quella del Golgota che ci appartiene’. Senza assumere le sofferenze di questa terra non arriveremo mai alla pace’”.

In che modo i pellegrini possono aiutare la Chiesa di Terra Santa a portare la croce della sofferenza?
“Pregando e offrendo gesti concreti di solidarietà. La Chiesa italiana è da sempre fortemente sensibile alla carità verso i Luoghi Santi. La prima forma di carità è il pellegrinaggio che porta non solo ragioni concrete di sopravvivenza, in quanto produce lavoro, ma anche attenzione alle vicende di questi Luoghi e vicinanze alle comunità cristiane, spesso piccole, come quella di Gaza, una parrocchia assediata e isolata dall’occupazione militare israeliana, da una parte, e dal regime di Hamas, dall’altra. Ma c’è un’altra idea che mi sono fatto in questi giorni...”.

Quale sarebbe?
“È quella che i problemi ‘di qua’ si risolvono nei nostri Paesi. La pressione dell’opinione pubblica internazionale ha un effetto particolarmente benefico ed efficace sui problemi della Terra Santa. Non parlo di pressione politica, che spesso non dipende da noi, ma di quella della gente comune che esprime il suo sdegno per una situazione che non trova soluzione. Mi chiedo, per esempio, se alcuni dirigenti israeliani abbiano più paura della pace che della guerra. Alcune posizioni sono illogiche, bisogna aiutare l’opinione pubblica internazionale a smontare la filosofia di gruppi oltranzisti che trovano sostegno, soprattutto negli Usa, e a ribadire che esiste una ragionevolezza che non può essere contraddetta all’infinito. C’è una parte israeliana che non vuole guardare al futuro. Gerusalemme non è un business ma la città di Dio sulla terra, il luogo dove tutti i figli di Abramo hanno il diritto di sostare. Diversamente la si profana”.

Ma l’opinione pubblica, perché possa fare pressione, ha bisogno di un’informazione obiettiva e chiara: non pensa che da questo punto di vista serva uno sforzo maggiore, soprattutto da parte dei media cristiani e cattolici?
“Urge raccontare quanto le nostre comunità soffrano della mancanza di casa, di lavoro, di sicurezza, di stabilità, di rispetto, tutte verità da rilanciare. Bisogna fare in modo che dalla Terra Santa le notizie arrivino sempre e non solo quando ci sono emergenze. Raccontare la vita quotidiana delle nostre comunità di Terra Santa, che è poi quello che il Sinodo per il Medio Oriente e Benedetto XVI chiedono. In questo contesto assume rilevanza il ruolo dei settimanali diocesani che, grazie anche al SIR, potrebbero dedicare maggiore spazio alla Terra Santa, ai legami che intercorrono tra le diocesi e le Chiese mediorientali e avvicinare così la gente alla Chiesa madre di Gerusalemme. Lo stesso possono fare giornali, radio e tv ecclesiali. Informare, sostenere e solidarizzare, sono le azioni da portare avanti”.

Dalle Chiese diocesane cosa può venire per la Terra Santa?
“Le porto un esempio: ad Arezzo abbiamo dedicato una Quaresima di carità per finanziare un appartamento che il Patriarcato latino ha destinato ad una famiglia cristiana. Posso dire che ci sono diocesi italiane che in Terra Santa fanno cose mirabili. Ma molto resta da fare: istruzione, formazione, accoglienza, giovani, lavoro, sono tutti campi nei quali è possibile attivare una sinergia con Patriarcato Latino e Custodia di Terra Santa per rispondere ai bisogni dei cristiani di lì. La stessa Cei è in prima linea con gli aiuti. A Gaza abbiamo visto una scuola finanziata con i fondi dell’8x1000. Gesti che fanno crescere una cultura di pace e non di conflitto”.

a cura di Daniele Rocchi, inviato SIR Europa in Terra Santa

© www.agensir.it - 13 gennaio 2012