Quando la Chiesa si rimise in cammino

ecumenismo-1Nella serata di giovedì 26 gennaio a Roma, nel Centro Pro Unione, viene presentato il libro Chiesa cattolica. Essenza - Realtà - Missione (Brescia, Queriniana, 2012, pagine 584, euro 35,00, Biblioteca di teologia contemporanea 157) del cardinale presidente emerito del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani. Pubblichiamo alcuni stralci dalle pagine iniziali del volume e, a destra, anticipiamo stralci dell’intervento del cardinale attuale presidente del medesimo Pontificio Consiglio.

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Walter Kasper - Lesperienza del concilio Vaticano II divenne per me un’esp erienza quanto mai incisiva della Chiesa e un permanente saldo punto di riferimento. Quando il 25 gennaio 1959 Giovanni XXIII annunciò il concilio, la sorpresa fu enorme. Seguì un tempo mozzafiato, avvincente e interessante quale i giovani teologi odierni non riescono più a immaginare. Noi sperimentammo come la veneranda vecchia Chiesa mostrava una nuova vitalità, come spalancava porte e finestre ed entrava in un dialogo al suo interno nonché in dialogo con altre Chiese, altre religioni e con la cultura moderna. Era una Chiesa che si rimetteva in cammino, una Chiesa che non ripudiava e non rinnegava la sua antica tradizione, ma le rimaneva fedele, e che tuttavia raschiava via incrostazioni e cercava così di rendere la tradizione nuova, viva e feconda per il cammino verso il futuro. Sono sempre convinto che i sedici principali documenti del concilio sono, nel loro complesso, la bussola per il cammino della Chiesa nel XXI secolo. Il concilio Vaticano II è già stato spesso definito come il concilio della Chiesa sopra la Chiesa. La Chiesa, che era in cammino sulle strade della storia da duemila anni, prese nel corso di tale concilio più profondamente coscienza della propria essenza, in virtù della quale era già fino ad allora vissuta e aveva agito. Già nel discorso di apertura, tenuto l’11 ottobre 1962, Giovanni XXIII disse che compito di tale concilio sarebbe stato quello di conservare integralmente e senza falsificazioni il sacro patrimonio della dottrina cristiana e di insegnarlo in modo efficace. Paolo VI disse la stessa cosa il 21 novembre 1964, in occasione della solenne promulgazione della costituzione sulla chiesa Lumen gentium, unitamente al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio. Egli affermò: «Questa promulgazione nulla veramente cambia della dottrina tradizionale. Ciò che Cristo volle, vogliamo anche noi. Ciò che era, resta. Ciò che per secoli la Chiesa ha insegnato, noi insegniamo parimenti. Soltanto ciò che era semplicemente vissuto ora è espresso, ciò che era incerto è chiarito; ciò ch’era mediato, discusso, e in parte controverso, ora giunge a serena formulazione». Il fascino e l’entusiasmo del concilio sono nel frattempo svaniti. È cominciato un tempo fatto di sobria considerazione dei fatti, in parte anche di valutazione critica degli eventi conciliari e soprattutto postconciliari. È succeduta una nuova generazione, per la quale il concilio è un evento molto lontano e appartenente a un altro tempo, a un tempo nel quale essa non era ancor nemmeno nata e nei confronti del quale non ha alcun rapporto personale, come invece lo aveva la mia generazione. A questa nuova generazione occorre spiegare faticosamente quanto allora avvenne ed entusiasmarla nei suoi confronti. Per questo ci vuole una solida ermeneutica del concilio. Non bisogna indubbiamente fare del concilio un mito, nel quale ognuno proietta e trova i propri pii desideri. Occorre piuttosto interpretare con accuratezza i testi conciliari secondo le regole universalmente valide dell’ermeneutica teologica. Nel farlo non bisogna separare il cosiddetto reale o presunto spirito del concilio dalla lettera del concilio, ma occorre piuttosto desumere lo spirito del concilio dalla sua storia e dai suoi testi. I testi del concilio vanno compresi alla luce della sua storia e alla luce delle spesso controverse discussioni svoltesi nel suo corso. Poi bisogna interpretare ogni singola formulazione in seno al complesso di tutti i testi conciliari e tener conto, nel farlo, della gerarchia intrinseca dei diversi documenti conciliari. Non da ultimo occorre interpretare i testi conciliari alla luce delle fonti, a cui lo stesso concilio era vincolato e da cui attinse copiosamente. Infine per un’adeguata ermeneutica conciliare è importante tener conto della ricezione che le affermazioni conciliari hanno trovato nella dottrina e nella vita della Chiesa dopo il concilio. Rettamente intesa la ricezione non è un’adozione meccanica, ma un processo ecclesiale vivo guidato dallo Spirito Santo, che si svolge nella dottrina così come in tutta la vita della Chiesa. Nel periodo postconciliare l’esp erienza di tutta la storia del concilio ha trovato il suo seguito. Alla controversia attorno alla definizione segue sempre la controversia attorno alla sua ricezione. Già durante il concilio Vaticano II si erano formate due fazioni, che furono presto dette «conservatrice» e, rispettivamente, «progressista». Questi termini ebbero inizialmente un significato diverso da quello che avrebbero assunto dopo il concilio. Quelli che allora furono detti progressisti erano infatti in realtà dei conservatori, che volevano riaffermare la tradizione grande e più antica della sacra Scrittura e dei Padri della Chiesa, mentre quelli che allora furono detti conservatori erano unilateralmente fissati sulla tradizione posttridentina degli ultimi secoli. Per tener conto delle giustificate istanze di ambedue le parti e per raggiungere, in corrispondenza a una buona tradizione conciliare, il consenso più ampio possibile, furono necessarie in molti casi delle formule di compromesso, pure questo un fenomeno niente affatto nuovo per chiunque conosca la storia dei concili. Spesso le discussioni, che si svolsero durante il concilio, vengono portate avanti con altri mezzi nella controversia sull’interpretazione del concilio. E così troviamo delle interpretazioni «progressiste», che si richiamano al concilio per sostenere delle posizioni «neomoderniste», che il concilio non ha scientemente fatto proprie a motivo del suo radicamento nella tradizione, e troviamo delle posizioni tradizionaliste, che mettono a volte completamente o parzialmente in discussione il concilio o lo interpretano nel senso di posizioni preconciliari del XVIII e XIX secolo, che il concilio volle precisamente superare. Nel frattempo Benedetto XVI ha impresso un impulso importante all’ermeneutica conciliare. A un’ermeneutica della rottura egli contrappone un’ermeneutica della continuità e della riforma, ed esorta a interpretare il concilio nel contesto di tutta la tradizione e come un anello della lunga catena di quest’ultima. In effetti non è possibile considerare il Vaticano II come una rottura e come l’inizio di una nuova Chiesa. Ciò contraddirebbe la sua autointelligenza e il suo radicamento consapevole e voluto nella tradizione. Che non sia possibile intendere la continuità nel senso del concilio cocome semplice ripetizione o spiegazione puramente logica o organica di affermazioni precedenti e l’ermeneutica della riforma come applicazione semplice e pratica, lo si desume dal modo in cui lo stesso concilio concepì la tradizione, in seno alla quale esso stava. Se vogliamo comprendere la continuità accompagnata da un rinnovamento, allora l’ermeneutica del concilio Vaticano II deve partire dall’idea dello sviluppo dei grandi maestri della scuola di Tubinga e dalla dottrina dello sviluppo di John Henry Newman. Tale idea parte dal fatto che la Chiesa è la stessa in tutti i secoli e in tutti i concili. Però si tratta di una tradizione viva, il che non significa una tradizione arbitraria. Newman poté mostrare nel suo celebre Essay on the Development of Christian Doctrine (1845), sulla scorta di molti esempi concreti desunti dalla tradizione ecclesiale più antica, che anche in passato c’erano stati, pur con tutta la continuità dei principi, sviluppi complicati e complessi e che la continuità include sia nuove definizioni, sia anche la loro ricezione creativa e una loro diversa inculturazione. Occorre perciò distinguere la Traditio (con la lettera maiuscola) permanentemente vincolante e tuttavia sempre giovane dalle molte traditiones (con la lettera minuscola), che esprimono l’unica tradizione in un modo storicamente condizionato, ma che la possono anche offuscare e deformare (si pensi, per esempio, alle tradizioni antiebraiche e a quelle ostili nei confronti del corpo o misogine). In questo senso il concilio ha più volte interrotto traditiones storicamente condizionate per far di nuovo brillare l’unica Traditio p ermanente e vincolante. Riforma non significa perciò solo ritorno all’origine o a una forma precedente della tradizione considerata come autentica, ma significa anche rinnovamento, affinché l’antico, l’originario e il permanentemente valido non sembri vecchio, ma si affermi di nuovo nella sua novità e torni nuovamente a brillare. Giovanni XXIII espresse questa istanza con il noto termine «aggiornamento », termine difficile da tradurre e spesso abusato. Esso non significa adattamento all’oggi, ma significa rendere presente ciò che è stato tramandato nella novità dell’oggi. Tale «rinnovamento» è qualcosa di diverso da una innovazione. Nel termine rinnovamento viene piuttosto espressa la concezione biblica del «nuovo», cioè di una novità escatologica gratuita, non deducibile, inconsunta e continuamente sorprendente. Il vangelo non è mai semplicemente ciò che si conosce da antica data, ma il nuovo eterno. Bisognerebbe perciò concepire l’ermeneutica della riforma come un’ermeneutica del rinnovamento e parlare di un’ermeneutica del rinnovamento. Il rinnovamento non è opera nostra, ma è l’opera dello Spirito Santo, che ci ricorda tutto (Giovanni, 14, 26) e ci introduce nello stesso tempo in tutta la verità (Giovanni, 16, 13). Il suo rinnovamento non significa semplicemente ripetizione, ma significa attualizzazione del vangelo rivelato una volta per tutte.

© Osservatore Romano - 27 gennaio 2012