Per portare la solidarietà del Papa
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- Creato: 10 Agosto 2014
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di GIANLUCA BICCINI
Portare la solidarietà del Pontefice e di tutta la Chiesa ai cristiani dell’Iraq per rivendicarne la dignità e i diritti. Il cardinale Fernando Filoni interpreta così la missione di inviato personale di Papa Francesco nel Paese mediorientale, dove si recherà — aggiunge — anche per testimoniare la propria vicinanza a donne e uomini con cui ha «condiviso momenti difficili» e a tutto il popolo iracheno, «che soffre quotidianamente» a causa di una situazione nella quale «si sono inserite ora forze esterne». All’indomani della nomina pontificia il porporato ne ha parlato in quest’intervista al nostro giornale, nella quale traccia anche un bilancio della sua attività di prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Quali compiti le ha affidato il Papa al momento della nomina?
Come inviato personale del Santo Padre porto tutta la solidarietà del Papa per questi fratelli e sorelle, oggi i più poveri, nonché di tutta la Chiesa. Ma porto anche una mia personale affezione e la mia profonda stima per fratelli e sorelle che ho conosciuto quando ero rappresentante pontificio, oltre dieci anni fa, e con i quali ho condiviso momenti difficili, unitamente a tutto il popolo iracheno, che soffre quasi quotidianamente i sanguinosi attentati che lo debilitano.
Lei è stato nunzio apostolico a Baghdad in un periodo particolarmente difficile per la storia del Paese. Una pagina drammatica di sofferenza per le popolazioni irachene, e per i cristiani in particolare, che oggi si trovano a vivere una nuova dolorosa esperienza di conflitto. Qual è la strada da percorrere per ritrovare la pace perduta?
Devo dire che in questi otto anni trascorsi da quando ho lasciato l’Iraq, in verità non c’è stata mai pace. Non possiamo parlare di ritrovare la pace perduta, perché dall’invasione dell’Iraq, nel 2003, sono stati undici anni di sangue, di migrazioni forzate, di grande sofferenza a motivo degli attentati quotidiani, della violenza settaria, sia contro i cristiani, sia anche tra sunniti e sciiti. E come si fa a parlare di pace con una situazione politica che non è riuscita finora a trovare la via della concordia? In questa situazione di debolezza, sono cresciute tendenze così fortemente contrapposte da dare vita a una conflittualità quotidiana, in cui si sono ora inserite forze esterne e sono emerse forze latenti da lungo tempo, che si erano sottovalutate o ignorate. La drammatica situazione creatasi nell’area di Mosul è solo la più triste esperienza di come violenze e fanatismo riescano ad avere il sopravvento, anche militarmente, in questo Paese, bello e stupendo, ricchissimo di cultura, ma tragicamente fragile fin dalla sua creazione, risalente al 1920. La pace rimane sempre un bene, anzitutto da volere, e poi da ottenere con l’impegno delle varie componenti del Paese. La strada è tutta in ascesa e irta di molti ostacoli per via delle divisioni tra sunniti, sciiti e curdi, e per la ricchezza delle fonti energetiche, oggetto di mire anche internazionali.
La drammatica situazione dei cristiani ha radici antiche.
In effetti è così. Con la caduta dell’impero Ottomano e la costituzione della Turchia come Stato, migliaia di cristiani — siri, caldei, assiri, armeni, greco-ortodossi o greco-cattolici — furono uccisi o espulsi. I sopravvissuti subirono deportazioni, affrontarono fughe, e molti morirono di fame e di stenti. Tra il 1915 e il 1918 cinque vescovi subirono il martirio, tre morirono in esilio; di sedici diocesi cattoliche, ne rimasero in vita tre; dei 250 sacerdoti, una metà fu uccisa insieme a numerose religiose. Il delegato apostolico Giacomo Emilio Sontag fu ucciso a Urmia. Negli anni sessanta, poi, migliaia di cristiani furono espulsi durante le rivolte in Kurdistan, trovando rifugio a Mosul, nella piana di Ninive o a Baghdad. Ora siamo alla terza grande persecuzione. Potranno i cristiani di queste terre avere diritto alla propria casa, essere cittadini stimati e rispettati, avere pieno riconoscimento della propria dignità nelle terre dei loro avi?
Di recente lei si è recato anche in Pakistan, altra terra in cui la minoranza cristiana vive una stagione particolarmente difficile, come purtroppo avviene in diversi Paesi del mondo. In base alla sua esperienza sono aumentate le difficoltà anche per i missionari che annunciano il Vangelo in queste realtà?
Sono stato in Pakistan all’inizio di novembre per l’ordinazione del nuovo vescovo di Faisalabad. Questo mio voler essere presente in un momento felice della recente storia travagliata di quella diocesi voleva essere un segno di incoraggiamento, sia per il nuovo vescovo, monsignor Joseph Arshad, e soprattutto per i fedeli di Faisalabad e del Pakistan. Infatti, ho incontrato anche gli altri vescovi del Paese. La Chiesa è minoritaria, trattandosi di un Paese in prevalenza islamico, ed è fortemente impegnata nell’opera di testimonianza evangelica, nell’opera educativa, nell’op era di solidarietà, nel sostegno ai poveri e, nel contesto dei diritti umani, per tutte le minoranze religiose. Qui essere cristiani esige generosità e a volte eroicità. Altrettanto bisogna dire per l’essere missionari in questa terra. Ci sono molte difficoltà, soprattutto a motivo di forme di fanatismo che, però, non appartengono alla grande maggioranza della popolazione. Essere cristiani in questo contesto è una vera scelta di vita.
Forse anche per questo motivo al Pontefice sembra stare particolarmente a cuore l’Asia. Quest’attenzione per il continente costituisce uno stimolo per Propaganda Fide?
Sì, non è però uno stimolo di oggi. Un capitolo nuovo in ordine all’evangelizzazione del continente fu aperto con l'assemblea speciale per l'Asia del Sinodo dei vescovi del 1998, a cui fece seguito l’esortazione apostolica Ecclesia in Asianel 1999. Le pagine di questo nuovo capitolo sono scritte in modo incisivo e peculiare da ogni Chiesa di quel continente. Le Chiese asiatiche sono state responsabilizzate dell’opera di evangelizzazione, per cui la nostra Congregazione missionaria non è l’unica entità ad occuparsi del continente asiatico. Essa però contribuisce e stimola e, possiamo dire, a volte integra l’opera delle Chiese locali asiatiche e le sostiene sotto tutti i punti di vista: pastorale, giuridico, economico, educativo e via dicendo. In tale contesto, sono sommamente felice che l’Asia stia particolarmente a cuore a Papa Francesco, il quale, già nel secondo anno del suo ministero petrino, viaggia ora in Corea, e poi in Sri Lanka e nelle Filippine (gennaio 2015).
A proposito dell’imminente viaggio papale in Corea, secondo lei, che ha visitato il Paese nell’ottobre 2013, quale realtà troverà il Pontefice?
La Chiesa in Corea, con una sua storia molto bella e significativa, sono certo che accoglierà il Santo Padre in modo gioioso ed entusiasta. Lì ricordano molto bene le due visite pastorali di Giovanni Paolo II nel 1984 e 1989, che diedero un impulso straordinario all’evangelizzazione del Paese; di tali avvenimenti è ancora vivo il ricordo. Ho detto che la Corea ha una storia bella e significativa. Uso questi due aggettivi pensando a come nel XVII secolo arrivò il cristianesimo, che, come tutti sappiamo, fu introdotto da alcuni laici, uomini saggi che, nel leggere il Vangelo e le spiegazioni del padre Matteo Ricci, se ne entusiasmarono, ritenendo che fosse la vera “luce” nel contesto religioso tradizionale confuciano-buddista. È una Chiesa ricca di testimonianze straordinarie di fede: pensiamo per esempio alle centinaia e centinaia di martiri di questi tre secoli. Una Chiesa in forte contesto di evangelizzazione, anche guardando alle sole statistiche. Una Chiesa ricca di vocazioni sacerdotali e religiose. Una Chiesa che, se pur minoritaria — i cattolici sono l’undici per cento — gode di altissimo prestigio morale con le sue opere educative e sociali. Una Chiesa che ha avuto a cuore, in tempi non lontani, un forte impegno civile per il progresso della democrazia e dei diritti dei lavoratori. Una Chiesa vivace a livello organizzativo e soprattutto vivace a livello missionario, non solo interno, ma anche ad gentes, in altri continenti. Infatti, circa un migliaio di sacerdoti, religiosi, religiose e laici coreani sono presenti in Africa, Asia e Oceania.
Del resto nell’Evangelii gaudium Francesco ha scritto di «sognare una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa» nella Chiesa. Come vi sentite interpellati da questa consegna?
Ricordo che Papa Francesco, fin dalle sue primissime omelie, parlò della Chiesa nella visione missionaria. Questa visione è stata poi ben evidenziata come linea programmatica del suo pontificato nell’Evangelii gaudium. Come prefetto di un dicastero missionario ne sono rimasto oltremodo felice e anche impressionato. Devo dire che non ho trovato, in verità, nel pensiero del Santo Padre, se non solo raramente in qualche circostanza, l’aggettivo di “nuova”, oppure “primaria”, oppure “secondaria” unito a “evangelizzazione”. E a me questo sembra assai interessante, perché mi pare che il Santo Padre lasci tradurre il concetto di scelta missionaria alle singole Chiese locali, o nazionali, le quali sono ben consapevoli delle realtà nelle quali esse sono inserite; e quindi tocca a esse impegnarsi a favore o della “nuova evangelizzazione” o della “evangelizzazione ad gentes”, sebbene oggi non vi sia alcun luogo con una chiara definizione tra l’una e l’altra realtà, perché in tutti i Paesi, a volte, può prevalere la “nuova evangelizzazione” — penso alle cosiddette antiche Chiese — oppure la “prima evangelizzazione”, e penso alle Chiese di nuova generazione.
L’attività di prefetto del dicastero la porta a un ministero itinerante. In questi ultimi mesi lei si è recato in Africa. Qual è la situazione della Chiesa nel continente in generale e nei Paesi visitati in particolare?
Il mio ministero mi dà la gioia di constatare la crescita della Chiesa e di questo ne sono grato a Dio; mi aiuta anche spiritualmente. Di recente mi sono recato in Camerun, per i cento anni dell’evangelizzazione dell’arcidiocesi di Bamenda, e poi in Guinea Equatoriale, dove la Chiesa attraversa un momento assai positivo dopo le non poche tribolazioni di qualche decennio fa. Concludendo il mese mariano nella nuova basilica nazionale dell’Immacolata concezione a Mongomo, sono rimasto impressionato dalla bellissima chiesa, voluta, con particolare generosità, dal presidente della Repubblica, il quale mi ha detto: «Ho voluto una bella Chiesa per la gloria di Dio e perché i nostri Cristiani abbiano il gusto di pregare in una chiesa “bella”»; e poneva un simpatico interrogativo: «Perché per pregare in una bella chiesa bisogna venire solo in Europa?». Anche questo è Africa. Nel contesto africano, si tratta di una Chiesa in crescita, ma dobbiamo considerare che, essendo giovane, attraversa a volte gli alti e bassi tipici della gioventù.
Alla fine dell'anno scorso e agli inizi di questo in corso, invece, ha fatto tappa nelle Antille, in Venezuela e in Brasile. Può dirci qualcosa anche sul continente americano?
Nel continente americano la nostra Congregazione segue con particolare attenzione un centinaio di Chiese locali: diocesi, prefetture apostoliche e vicariati apostolici. In Venezuela ho partecipato quale delegato straordinario del Santo Padre al IV Congresso missionario americano eIX Congresso missionario latino-americano; è stata un’o ccasione molto utile per poter dire una parola sul ruolo che l’America Latina ha nell’opera missionaria. Dopo cinque secoli dall’evangelizzazione del continente, mi pare doveroso che esso abbia un ruolo primario verso altri continenti che necessitano dell’annuncio del Vangelo. D’altronde, se la Chiesa americana, e in particolare latinoamericana, ha potuto dare un successore di Pietro alla Chiesa universale, vuol dire che è matura per dare molto di più a livello missionario. In Brasile ho parlato a oltre un centinaio di vescovi in un seminario di aggiornamento, organizzato dall’arcidiocesi di Rio de Janeiro, sull’impegno missionario che la Chiesa brasiliana può esprimere a cinquant’anni dal decreto conciliare Ad gentes. La visita nelle Antille è stata poi la prima di un prefetto della Congregazione missionaria in quelle isole. Non volevo che per la loro entità e per la loro posizione geografica avessero la sensazione di essere ai margini della nostra attenzione, e soprattutto del nostro affetto.
E devo dire che vi ho trovato molta generosità ed entusiasmo spirituale e umano. E per il futuro immediato, quali progetti ha in cantiere la vostra Congregazione?
Il dicastero missionario celebrerà nel prossimo anno 2015 il cinquantesimo anniversario del decreto conciliare Ad gentes; per questo anniversario abbiamo in programma un’assemblea plenaria in cui ci si chiederà in che modo la Congregazione può rispondere meglio alla sua vocazione di portare il Vangelo a tutte le genti e, al tempo stesso, come sostenere le giovani Chiese nei cosiddetti territori di missione.
© Osservatore Romano - 10 agosto 2014
Portare la solidarietà del Pontefice e di tutta la Chiesa ai cristiani dell’Iraq per rivendicarne la dignità e i diritti. Il cardinale Fernando Filoni interpreta così la missione di inviato personale di Papa Francesco nel Paese mediorientale, dove si recherà — aggiunge — anche per testimoniare la propria vicinanza a donne e uomini con cui ha «condiviso momenti difficili» e a tutto il popolo iracheno, «che soffre quotidianamente» a causa di una situazione nella quale «si sono inserite ora forze esterne». All’indomani della nomina pontificia il porporato ne ha parlato in quest’intervista al nostro giornale, nella quale traccia anche un bilancio della sua attività di prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli.
Quali compiti le ha affidato il Papa al momento della nomina?
Come inviato personale del Santo Padre porto tutta la solidarietà del Papa per questi fratelli e sorelle, oggi i più poveri, nonché di tutta la Chiesa. Ma porto anche una mia personale affezione e la mia profonda stima per fratelli e sorelle che ho conosciuto quando ero rappresentante pontificio, oltre dieci anni fa, e con i quali ho condiviso momenti difficili, unitamente a tutto il popolo iracheno, che soffre quasi quotidianamente i sanguinosi attentati che lo debilitano.
Lei è stato nunzio apostolico a Baghdad in un periodo particolarmente difficile per la storia del Paese. Una pagina drammatica di sofferenza per le popolazioni irachene, e per i cristiani in particolare, che oggi si trovano a vivere una nuova dolorosa esperienza di conflitto. Qual è la strada da percorrere per ritrovare la pace perduta?
Devo dire che in questi otto anni trascorsi da quando ho lasciato l’Iraq, in verità non c’è stata mai pace. Non possiamo parlare di ritrovare la pace perduta, perché dall’invasione dell’Iraq, nel 2003, sono stati undici anni di sangue, di migrazioni forzate, di grande sofferenza a motivo degli attentati quotidiani, della violenza settaria, sia contro i cristiani, sia anche tra sunniti e sciiti. E come si fa a parlare di pace con una situazione politica che non è riuscita finora a trovare la via della concordia? In questa situazione di debolezza, sono cresciute tendenze così fortemente contrapposte da dare vita a una conflittualità quotidiana, in cui si sono ora inserite forze esterne e sono emerse forze latenti da lungo tempo, che si erano sottovalutate o ignorate. La drammatica situazione creatasi nell’area di Mosul è solo la più triste esperienza di come violenze e fanatismo riescano ad avere il sopravvento, anche militarmente, in questo Paese, bello e stupendo, ricchissimo di cultura, ma tragicamente fragile fin dalla sua creazione, risalente al 1920. La pace rimane sempre un bene, anzitutto da volere, e poi da ottenere con l’impegno delle varie componenti del Paese. La strada è tutta in ascesa e irta di molti ostacoli per via delle divisioni tra sunniti, sciiti e curdi, e per la ricchezza delle fonti energetiche, oggetto di mire anche internazionali.
La drammatica situazione dei cristiani ha radici antiche.
In effetti è così. Con la caduta dell’impero Ottomano e la costituzione della Turchia come Stato, migliaia di cristiani — siri, caldei, assiri, armeni, greco-ortodossi o greco-cattolici — furono uccisi o espulsi. I sopravvissuti subirono deportazioni, affrontarono fughe, e molti morirono di fame e di stenti. Tra il 1915 e il 1918 cinque vescovi subirono il martirio, tre morirono in esilio; di sedici diocesi cattoliche, ne rimasero in vita tre; dei 250 sacerdoti, una metà fu uccisa insieme a numerose religiose. Il delegato apostolico Giacomo Emilio Sontag fu ucciso a Urmia. Negli anni sessanta, poi, migliaia di cristiani furono espulsi durante le rivolte in Kurdistan, trovando rifugio a Mosul, nella piana di Ninive o a Baghdad. Ora siamo alla terza grande persecuzione. Potranno i cristiani di queste terre avere diritto alla propria casa, essere cittadini stimati e rispettati, avere pieno riconoscimento della propria dignità nelle terre dei loro avi?
Di recente lei si è recato anche in Pakistan, altra terra in cui la minoranza cristiana vive una stagione particolarmente difficile, come purtroppo avviene in diversi Paesi del mondo. In base alla sua esperienza sono aumentate le difficoltà anche per i missionari che annunciano il Vangelo in queste realtà?
Sono stato in Pakistan all’inizio di novembre per l’ordinazione del nuovo vescovo di Faisalabad. Questo mio voler essere presente in un momento felice della recente storia travagliata di quella diocesi voleva essere un segno di incoraggiamento, sia per il nuovo vescovo, monsignor Joseph Arshad, e soprattutto per i fedeli di Faisalabad e del Pakistan. Infatti, ho incontrato anche gli altri vescovi del Paese. La Chiesa è minoritaria, trattandosi di un Paese in prevalenza islamico, ed è fortemente impegnata nell’opera di testimonianza evangelica, nell’opera educativa, nell’op era di solidarietà, nel sostegno ai poveri e, nel contesto dei diritti umani, per tutte le minoranze religiose. Qui essere cristiani esige generosità e a volte eroicità. Altrettanto bisogna dire per l’essere missionari in questa terra. Ci sono molte difficoltà, soprattutto a motivo di forme di fanatismo che, però, non appartengono alla grande maggioranza della popolazione. Essere cristiani in questo contesto è una vera scelta di vita.
Forse anche per questo motivo al Pontefice sembra stare particolarmente a cuore l’Asia. Quest’attenzione per il continente costituisce uno stimolo per Propaganda Fide?
Sì, non è però uno stimolo di oggi. Un capitolo nuovo in ordine all’evangelizzazione del continente fu aperto con l'assemblea speciale per l'Asia del Sinodo dei vescovi del 1998, a cui fece seguito l’esortazione apostolica Ecclesia in Asianel 1999. Le pagine di questo nuovo capitolo sono scritte in modo incisivo e peculiare da ogni Chiesa di quel continente. Le Chiese asiatiche sono state responsabilizzate dell’opera di evangelizzazione, per cui la nostra Congregazione missionaria non è l’unica entità ad occuparsi del continente asiatico. Essa però contribuisce e stimola e, possiamo dire, a volte integra l’opera delle Chiese locali asiatiche e le sostiene sotto tutti i punti di vista: pastorale, giuridico, economico, educativo e via dicendo. In tale contesto, sono sommamente felice che l’Asia stia particolarmente a cuore a Papa Francesco, il quale, già nel secondo anno del suo ministero petrino, viaggia ora in Corea, e poi in Sri Lanka e nelle Filippine (gennaio 2015).
A proposito dell’imminente viaggio papale in Corea, secondo lei, che ha visitato il Paese nell’ottobre 2013, quale realtà troverà il Pontefice?
La Chiesa in Corea, con una sua storia molto bella e significativa, sono certo che accoglierà il Santo Padre in modo gioioso ed entusiasta. Lì ricordano molto bene le due visite pastorali di Giovanni Paolo II nel 1984 e 1989, che diedero un impulso straordinario all’evangelizzazione del Paese; di tali avvenimenti è ancora vivo il ricordo. Ho detto che la Corea ha una storia bella e significativa. Uso questi due aggettivi pensando a come nel XVII secolo arrivò il cristianesimo, che, come tutti sappiamo, fu introdotto da alcuni laici, uomini saggi che, nel leggere il Vangelo e le spiegazioni del padre Matteo Ricci, se ne entusiasmarono, ritenendo che fosse la vera “luce” nel contesto religioso tradizionale confuciano-buddista. È una Chiesa ricca di testimonianze straordinarie di fede: pensiamo per esempio alle centinaia e centinaia di martiri di questi tre secoli. Una Chiesa in forte contesto di evangelizzazione, anche guardando alle sole statistiche. Una Chiesa ricca di vocazioni sacerdotali e religiose. Una Chiesa che, se pur minoritaria — i cattolici sono l’undici per cento — gode di altissimo prestigio morale con le sue opere educative e sociali. Una Chiesa che ha avuto a cuore, in tempi non lontani, un forte impegno civile per il progresso della democrazia e dei diritti dei lavoratori. Una Chiesa vivace a livello organizzativo e soprattutto vivace a livello missionario, non solo interno, ma anche ad gentes, in altri continenti. Infatti, circa un migliaio di sacerdoti, religiosi, religiose e laici coreani sono presenti in Africa, Asia e Oceania.
Del resto nell’Evangelii gaudium Francesco ha scritto di «sognare una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa» nella Chiesa. Come vi sentite interpellati da questa consegna?
Ricordo che Papa Francesco, fin dalle sue primissime omelie, parlò della Chiesa nella visione missionaria. Questa visione è stata poi ben evidenziata come linea programmatica del suo pontificato nell’Evangelii gaudium. Come prefetto di un dicastero missionario ne sono rimasto oltremodo felice e anche impressionato. Devo dire che non ho trovato, in verità, nel pensiero del Santo Padre, se non solo raramente in qualche circostanza, l’aggettivo di “nuova”, oppure “primaria”, oppure “secondaria” unito a “evangelizzazione”. E a me questo sembra assai interessante, perché mi pare che il Santo Padre lasci tradurre il concetto di scelta missionaria alle singole Chiese locali, o nazionali, le quali sono ben consapevoli delle realtà nelle quali esse sono inserite; e quindi tocca a esse impegnarsi a favore o della “nuova evangelizzazione” o della “evangelizzazione ad gentes”, sebbene oggi non vi sia alcun luogo con una chiara definizione tra l’una e l’altra realtà, perché in tutti i Paesi, a volte, può prevalere la “nuova evangelizzazione” — penso alle cosiddette antiche Chiese — oppure la “prima evangelizzazione”, e penso alle Chiese di nuova generazione.
L’attività di prefetto del dicastero la porta a un ministero itinerante. In questi ultimi mesi lei si è recato in Africa. Qual è la situazione della Chiesa nel continente in generale e nei Paesi visitati in particolare?
Il mio ministero mi dà la gioia di constatare la crescita della Chiesa e di questo ne sono grato a Dio; mi aiuta anche spiritualmente. Di recente mi sono recato in Camerun, per i cento anni dell’evangelizzazione dell’arcidiocesi di Bamenda, e poi in Guinea Equatoriale, dove la Chiesa attraversa un momento assai positivo dopo le non poche tribolazioni di qualche decennio fa. Concludendo il mese mariano nella nuova basilica nazionale dell’Immacolata concezione a Mongomo, sono rimasto impressionato dalla bellissima chiesa, voluta, con particolare generosità, dal presidente della Repubblica, il quale mi ha detto: «Ho voluto una bella Chiesa per la gloria di Dio e perché i nostri Cristiani abbiano il gusto di pregare in una chiesa “bella”»; e poneva un simpatico interrogativo: «Perché per pregare in una bella chiesa bisogna venire solo in Europa?». Anche questo è Africa. Nel contesto africano, si tratta di una Chiesa in crescita, ma dobbiamo considerare che, essendo giovane, attraversa a volte gli alti e bassi tipici della gioventù.
Alla fine dell'anno scorso e agli inizi di questo in corso, invece, ha fatto tappa nelle Antille, in Venezuela e in Brasile. Può dirci qualcosa anche sul continente americano?
Nel continente americano la nostra Congregazione segue con particolare attenzione un centinaio di Chiese locali: diocesi, prefetture apostoliche e vicariati apostolici. In Venezuela ho partecipato quale delegato straordinario del Santo Padre al IV Congresso missionario americano eIX Congresso missionario latino-americano; è stata un’o ccasione molto utile per poter dire una parola sul ruolo che l’America Latina ha nell’opera missionaria. Dopo cinque secoli dall’evangelizzazione del continente, mi pare doveroso che esso abbia un ruolo primario verso altri continenti che necessitano dell’annuncio del Vangelo. D’altronde, se la Chiesa americana, e in particolare latinoamericana, ha potuto dare un successore di Pietro alla Chiesa universale, vuol dire che è matura per dare molto di più a livello missionario. In Brasile ho parlato a oltre un centinaio di vescovi in un seminario di aggiornamento, organizzato dall’arcidiocesi di Rio de Janeiro, sull’impegno missionario che la Chiesa brasiliana può esprimere a cinquant’anni dal decreto conciliare Ad gentes. La visita nelle Antille è stata poi la prima di un prefetto della Congregazione missionaria in quelle isole. Non volevo che per la loro entità e per la loro posizione geografica avessero la sensazione di essere ai margini della nostra attenzione, e soprattutto del nostro affetto.
E devo dire che vi ho trovato molta generosità ed entusiasmo spirituale e umano. E per il futuro immediato, quali progetti ha in cantiere la vostra Congregazione?
Il dicastero missionario celebrerà nel prossimo anno 2015 il cinquantesimo anniversario del decreto conciliare Ad gentes; per questo anniversario abbiamo in programma un’assemblea plenaria in cui ci si chiederà in che modo la Congregazione può rispondere meglio alla sua vocazione di portare il Vangelo a tutte le genti e, al tempo stesso, come sostenere le giovani Chiese nei cosiddetti territori di missione.
© Osservatore Romano - 10 agosto 2014