Scuotere il mondo dall’indifferenza

dialogo-interreligiosodi NICOLA GORI

Il Medio oriente non risponderebbe più alla sua realtà storica se venisse a mancare la presenza cristiana. Per questo è necessario l’impegno della comunità internazionale per fermare le violenze e le guerre che sconvolgono alcuni Paesi dell’area, in particolare Siria e Iraq. Lo richiede il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese orientali, in questa intervista al nostro giornale.

Papa Francesco ha affermato che non è possibile rassegnarsi a un Medio oriente senza i cristiani. Come si possono sostenere le comunità locali per aiutarle a non abbandonare le loro terre?
La Chiesa cattolica cerca di accompagnare questa situazione, come il Papa stesso più volte ha indicato, con una preghiera costante e permanente, guardando a Cristo, nostra speranza. Insieme, si impegna a fare tutto quello che può, sostenendo in primo luogo i vescovi, i sacerdoti, le comunità religiose e i laici. È stata un segno di grande consolazione, oltre che un prezioso aiuto nel discernimento degli avvenimenti, la lettera di Papa Francesco ai cristiani del Medio oriente, il 21 dicembre scorso. Anche alla luce di quanto vi troviamo scritto, possiamo dire che certamente la Chiesa può fare e fa, ma è anche importante l’attività della comunità internazionale. Essa infatti può fermare la violenza, l’odio, la guerra, e far sì che la libertà religiosa e il diritto di vivere e di esistere vengano garantiti a tutti indistintamente. È perciò un grande desiderio che il Medio oriente non rimanga senza cristiani: sarebbe un altro Medio oriente, non rispondente alla sua identità storica e a tutta la ricchezza che la presenza cristiana rappresenta per quell’a re a.

Che ruolo possono avere gli episcopati della regione?
La fuga dei cristiani è nelle preoccupazioni di tutti i vescovi, in particolare dell’Iraq. Si cerca perciò in tutti i modi di far sì che sia rispettato non solo il diritto di emigrare, ma anche quello di tornare in patria, cioè il diritto di rifarsi una vita nel territorio natio, come pure è emerso nella riunione con i nunzi apostolici della regione, all’inizio di ottobre. La Chiesa, da parte sua, anche attraverso il nostro dicastero, cerca di sostenere ogni sacerdote con qualche piccolo aiuto. E tutta intera alza la voce — a cominciare dal Papa e dai vescovi, fino a tutte le associazioni — in difesa dei cristiani, della libertà religiosa e della presenza arricchente dei nostri fratelli nella fede in Medio oriente. A questo proposito voglio esprimere al Pontefice la nostra gratitudine per tutta la vicinanza verso i fedeli, i vescovi e i sacerdoti delle Chiese orientali cattoliche. Ogni volta in lui troviamo una carezza. A confermarlo sono i vescovi e i sacerdoti che in questo momento più soffrono in Iraq e in Siria, luoghi dai quali riceviamo ogni giorno notizie che ci fanno tanto soffrire e tanto partecipare al loro dramma. Il Papa con la sua umiltà, paternità e fraternità, è molto vicino a loro e questo è motivo di grande consolazione.

Ma come si può risvegliare l’interesse della comunità internazionale di fronte al dramma di quanti continuano a subire persecuzioni e violenze?
Ci sono tanti elementi che testimoniano l’attività della Santa Sede — in particolare attraverso la diplomazia e i contatti con i Governi della comunità internazionale, a livello anche di Nazioni Unite, sia a New York, sia a Ginevra — per scuotere il mondo dall’indifferenza di fronte a questo dramma. Molti frutti sono stati raccolti. Penso alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica e in particolare di alcuni Governi che stanno mettendo a disposizione tutta la loro influenza internazionale per aiutare questi cristiani, fornendo gli aiuti necessari per accoglierli in Europa, negli Stati Uniti d’America e nel Canada, che rappresentano le mete privilegiate dalle persone che fuggono dal Medio oriente. Senza dimenticare l’Italia, che in questi giorni sta ancora una volta dando prova di solidarietà e di sua accoglienza per migliaia di loro. Rimane tuttavia prioritario l’auspicio che la madrepatria torni a essere dimora accogliente per ciascuno di loro.

In Turchia il Pontefice ha ricordato che criminalità e terrorismo trovano terreno fertile nel degrado sociale alimentato da fame, disoccupazione, emarginazione. È possibile arrestare questa spirale?
Il Papa agisce su due fronti. Con grande forza condanna la violenza, la guerra, la crudeltà inspiegabile di certi atti che si commettono. Al tempo stesso, interviene su quello che è a monte, ossia su ciò che favorisce la crescita della violenza: le ingiustizie, lo scarto, la formazione di persone che vivono senza valori umani e cristiani. Ci fa notare che è assurdo credere che con la violenza e la guerra si risolva tutto. È umano pensare, invece, che soltanto con il dialogo e il negoziato si possa andare avanti. Il Pontefice ha perciò ragione a denunciare questa violenza — e nella lettera del 21 dicembre ha usato parole precise per definire l’organizzazione terroristica che agisce in Siria e Iraq — ma anche a far capire che tante cose si devono cambiare, soprattutto nella formazione dei giovani e di quelli che saranno i futuri leader della comunità politica internazionale. Un altro elemento dell’azione del Papa e della Santa Sede è l’esortazione rivolta ai leader religiosi, affinché facciano sentire la loro voce contro quelli che vogliono usare la religione per giustificare la violenza, la crudeltà e il poter disporre degli altri esseri umani come fossero oggetti.

Qual è l’antidoto più efficace contro il terrorismo fondamentalista?
È l’educazione, è la formazione. Occorre, come ho detto prima, che quanti guidano le comunità religiose del mondo predichino la pace, il dialogo. Il Papa, dopo aver condannato il terrorismo e la violenza cieca, ha definito il dialogo «un segno del regno di Dio», affermando che esso «è un servizio alla giustizia e al tempo stesso una condizione tanto necessaria per la pace desiderata». Certo, il primo passo è che sia smascherato il pensiero che la violenza può essere giustificata da una fede religiosa. I leader religiosi ribadiscano piuttosto che esistono dei principi da applicarsi per la soluzione pacifica delle controversie attraverso il dialogo, l’accordo e la rinuncia ad alcune delle proprie pretese.

La diplomazia dei “piccoli passi”, che ha portato alla recente svolta nei rapporti tra Stati Uniti d’America e Cuba, ha possibilità di successo anche in Terra santa?
Non conosciamo i disegni di Dio, ma certamente lui opera nella storia e porta molte volte a delle soluzioni che nemmeno noi osiamo immaginare. Credo che questa nuova realtà delle relazioni tra Cuba e Stati Uniti d’America, favorita dal Papa e dalla Santa Sede, sia un esempio di come le differenze si possano sanare e si possa trovare una soluzione anche a partire da differenti punti di vista a livello politico, sociale ed economico. Nell’ottica della costruzione di un mondo degno dell’uomo, nel quale ognuno con la sua dignità possa vivere nella giustizia e nella pace.

Il traguardo verso l’unità dei cristiani appare oggi meno lontano, soprattutto dopo il viaggio del Papa in Turchia. Quale ruolo possono svolgere le Chiese orientali in questo cammino?
Le Chiese orientali cattoliche sono inserite in questo movimento dell’unità dei cristiani, in quanto, come dice l’ Orientalium ecclesiarum — del quale abbiamo celebrato a novembre il cinquantesimo della promulgazione — queste Chiese esistono perché vogliono e devono essere un seme di unità. Esse sono già l’inizio di un ponte che un giorno arriverà a unire i cattolici e gli orientali ortodossi. Le Chiese orientali cattoliche non sono un ostacolo per l’unità, non vogliono portare avanti una manovra per mettere in crisi le Chiese ortodosse. Al contrario, come le ha concepite il concilio Vaticano II , sono per l’unità della Chiesa e la loro esistenza è giustificata da questo. Cerchiamo con umiltà e serenità di essere aperti ai nostri fratelli ortodossi, alle loro venerabili Chiese, in primo luogo a Bartolomeo e ai patriarchi ortodossi orientali.

Come saranno coinvolti gli istituti religiosi orientali nella celebrazione dell’Anno della vita consacrata?
Abbiamo seguito le indicazioni del Papa e della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, per poter offrire ai consacrati un adeguato contesto celebrativo. Abbiamo pensato a ritiri spirituali, conferenze, celebrazioni particolari, perché le congregazioni appartenenti alle Chiese orientali partecipino a questo anno. I consacrati sono diffusori del Vangelo con la vita, con l’identità, la testimonianza e l’apertura a tutti gli uomini. Penso con ammirazione a quanti di loro si stanno spendendo per sostenere e incoraggiare i profughi iracheni cacciati dalla piana di Ninive.

In questo anno cade l’anniversario della promulgazione del Codice dei canoni delle Chiese orientali. È tempo di bilancio e di verifica?
Il nuovo codice è stato uno strumento straordinario per la vita delle Chiese orientali cattoliche dopo il concilio Vaticano II . Celebreremo l’anniversario insieme con il Pontificio istituto orientale. Vorrei sottolineare come Giovanni Paolo II nella sua introduzione abbia ricordato che il codice è un elemento di sana regolazione della vita delle Chiese orientali cattoliche, ma anche un segno del «già e non ancora». Infatti, una volta raggiunta l’auspicata unità della Chiesa, esso dovrà essere riconsiderato secondo tale prospettiva; pertanto può essere considerato anche come un seme di una nuova realtà.

© Osservatore Romano - 4 gennaio 2015