L’armeno che insegnò il perdono

Vescovo Cappuccino missionario Armeno Zohrabiandi EGIDIO PICUCCI

Padre Cirillo Zohrabian trovò la guerra nascendo e non la abbandonò per tutta la vita. Nacque a Erzerum — oggi capoluogo dell’omonima provincia turca nell’Anatolia orientale a ridosso del confine con l’Armenia — il 25 giugno 1881, pochi anni prima, cioè, che scoppiasse la rivolta della sua gente contro l’amministrazione turca che in un primo tempo represse la sommossa e qualche anno dopo scatenò contro gli armeni e i curdi una sanguinosa persecuzione, uccidendo centomila p ersone. Figlio di un modesto fornaio, terziario francescano, crebbe in un ambiente cristiano. Si fece cappuccino a Smirne nel 1898, prendendo il nome di Cirillo.
Scelse i cappuccini, perché li vedeva spesso nella sua città, dove si erano ritirati dopo essere stati espulsi dalla Georgia. All’indomani dell’ordinazione sacerdotale, padre Cirillo tornò a Erzerum, dove lo impressionò l’o dio che la sua gente aveva contro i turchi per la repressione del 1895-1896. Stavano maturando epoche nuove e non bastava deplorare o opporsi; occorreva agire, non soltanto a favore dei cattolici di rito latino, come facevano i missionari stranieri, ma con tutti. Padre Cirillo cominciò dai piccoli, per i quali aprì una scuola elementare che manteneva con i proventi dell’insegnamento ai figli dei turchi ricchi della città. Nel 1914, tutti i missionari furono richiamati in Europa dalle rispettive nazioni, e padre Cirillo dovette sostituirne più d’uno. Per questo fu mandato a Costantinopoli. Fu una partenza improvvisa e provvidenziale, perché poco tempo dopo Erzerum fu presa, saccheggiata e decimata nel giro di pochissimi giorni. Un armeno sfuggito alla strage gli portò una piccola croce trovata sul cadavere del fratello martire. Nel 1916 padre Cirillo fu richiesto come cappellano di 512 italiani rinchiusi nei campi di concentramento turchi: un lavoro che divenne pressoché impossibile quando agli italiani si aggiunsero i greci e gli armeni. Padre Cirillo dovette lavorare nella clandestinità, travestito da contadino, per aiutare i perseguitati a riparare oltre frontiera. Percorse in ogni senso la regione a piedi, fino ai villaggi più remoti, ricercato, diffamato, calunniato, minacciato. Fu arrestato mentre usciva da una baracca in cui aveva celebrato clandestinamente la messa. Il tribunale di Trebisonda lo condannò all’impiccagione. Isolato, privato della consolazione di celebrare, il “p re t e dei fuggiaschi” divenne un piccolo cero sul quale il destino scriveva la storia del suo popolo: dolore, angoscia, trepidazione, morte. Espulso dalla Turchia, sentì un richiamo interiore che lo voleva a Ro- ma, dove fu ricevuto da Pio XI. Ai confratelli di Frascati che gli raccomandavano di riposare, rispose «di non poter vivere tranquillo» se non fosse partito. Quindi, «stanco di non far nulla», tornò in Grecia, dove restò quindici anni. Eletto ordinario di tutti gli armeni dispersi nella penisola e nelle isole dell’Egeo, li visitò più volte lenendo miserie, confortando dolori, assolvendo errori, eliminando disagi con la costruzione di scuole, orfanotrofi, di tutto quanto, cioè, l’amore per la sua gente gli consigliava e la necessità gli imponeva. Così, il 1° ottobre 1938, si avviò verso Beirut, dove l’aveva chiamato il patriarca di Cilicia degli Armeni, Agagianiàn, che gli comunicò la nomina a vicario patriarcale dell’Alta Gezira. Partì senza un soldo in tasca e quando arrivò in sede, a Kamichlié, non trovò neppure una casa, e si dovette accontentare di una stalla. Nell’Alta Gezira rimase quindici anni, assillato da occupazioni, viaggi interminabili, notti insonni. La diocesi era a brandelli, ma riuscì a tessere tra città e città, tra paesi e villaggi, una tela che pian piano divenne un arazzo con scene memorabili. Non c’erano case per i sacerdoti, mancavano chiese. A Kubur- el-bid celebrava messa nell’atrio della stazione. In due anni riuscì a costruire almeno una chiesa nei luoghi principali, compresa ovviamente la capitale che la aspettava da ventidue anni. Ma prima punteggiò la diocesi di scuole «perché la scuola — disse al concilio Vaticano II — è l’opera missionaria per eccellenza». E disse ancora: «Ho sempre fatto come mi disse il Papa Pio XI, quando mi mandò a fondare l’o rd i n a r i a - to di Grecia: imita Gesù Cristo, che non aveva dove posare il capo, ma fondò una scuola: quella dei dodici apostoli e poi dei 72 discepoli». Alla scuola unì sempre il catechismo insegnato a ogni persona e con estrema chiarezza. A Erzerum lo insegnò a 300 soldati albanesi e scrisse quattro volumetti chiari e brevi perché i missionari avessero una guida facile e comprensibile. Ce n’era a sufficienza perché il patriarca lo segnalasse per la nomina a vescovo, che gli arrivò il 24 agosto 1940. Fu un motivo in più per non fermarsi, anche se la nuova carica lo esponeva senza poterlo proteggere; si colpiva lui quando si voleva colpire gli altri. Fu incarcerato (1949) e diffidato a rientrare in Turchia (1953). «Ormai — scrisse — sono familiare con la prigione e l’esilio; ma non importa, perché in ogni terra c’è un inginocchiatoio per pregare e dei poveri da soccorrere». Tornato a Roma si mise nuovamente in cammino per visitare gli armeni dispersi in America latina. Morì a Roma il 20 settembre 1972, a 91 anni. Il suo corpo riposa a Palermo, nella chiesa dei cappuccini.

© Osservatore Romano - 06 maggio 2015