Cristiani in transito

Roberto Fontolan

Nei Paesi del Golfo sono oltre due milioni e vivono «come pellegrini». Ma ormai, per tanti versi, lo sono anche in Siria, Libano... E persino in Terra Santa. Alla viglia del Sinodo che parlerà di loro, monsignor PAUL HINDER, vicario d’Arabia, ci racconta cosa si attendono quei cattolici di frontiera

«Provvisori. E pellegrini». Oggi qui, domani chissà. Sulla situazione dei cristiani in Medio Oriente, monsignor Paul Hinder, vicario apostolico d’Arabia, non si fa illusioni. Con il realismo che contraddistingue questo cappuccino nato 68 anni fa in Svizzera, snocciola dati e numeri della presenza della Chiesa nella terra del profeta dell’islam. Una presenza che monsignor Hinder conosce bene, essendo dal 2005 alla guida della più vasta circoscrizione cattolica del mondo, su un territorio di tre milioni di chilometri quadrati tra il Deserto Siriano e l’Oceano Indiano. Dove l’inglese è il nuovo latino, visto che i due milioni e mezzo di cattolici arrivano dal mondo intero: Filippine, India, Libano, Egitto, Iraq, Palestina, Stati Uniti... E, pur tra tante difficoltà, vivono la fede in un modo che «è di conforto anche per il loro pastore». Tanto che monsignor Hinder, un giorno, ha detto al Papa: «Non ho mai aspirato a diventare un vescovo. Ma, se devo esserlo, preferisco guidare in Arabia dei fedeli così». Per questo, alla vigilia del Sinodo speciale su “La Chiesa cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza”, che dal 10 al 24 ottobre in Vaticano coinvolgerà centinaia di partecipanti tra vescovi locali, rappresentanti non cattolici e interlocutori musulmani, gli abbiamo chiesto di presentarci la situazione delle sue comunità e ciò che si attendono da questo appuntamento.

Come può essere descritta la realtà dei cristiani nei Paesi del Golfo?
È segnata da due caratteristiche: tutti sono stranieri, cioè residenti a tempo senza cittadinanza, provenienti da quasi tutti i Paesi del mondo, soprattutto dalle Filippine e dal subcontinente indiano; vivono in Paesi con libertà religiosa e di culto limitata. D’altra parte, i fedeli sono in gran parte molto impegnati e motivati nel vivere la loro fede nei limiti posti da altri. E, visto che su 2,5 milioni di cattolici i preti sono appena una sessantina, la collaborazione dei laici è essenziale.

Che differenza c’è tra i cristiani che vivono nella Penisola Araba e le comunità dei Paesi del Mediterraneo orientale?
La differenza tra Paesi come il Libano, la Siria, l’Iraq ed altri è che in quelli del Golfo non esistono chiese di antica tradizione: tutti i cristiani, cioè, sono migranti senza cittadinanza. Questo vuol dire che non abbiamo strutture anziane. A causa della limitata libertà religiosa e di culto, in molti Paesi non possiamo avere le strutture di cui normalmente una chiesa locale gode, come un seminario. È vero che abbiamo cristiani di tutte le chiese cattoliche orientali, però pure loro sono migranti. La Chiesa nel Golfo, a causa della sua multinazionalità e multiritualità, parla molte lingue. Ma la lingua franca è l’inglese, perché l’arabo si usa soltanto per le comunità abbastanza importanti di lingua araba.

Quali sono le sue attese per il Sinodo?
Il tema del Sinodo è “Comunione e testimonianza”. Aspetto una migliore sensibilità per entrambi gli aspetti. In tutta la regione, cioè, la comunione tra i cristiani molto spesso è precaria perché sottomessa agli interessi delle tradizioni tribali e/o familiari. Ora, è bene avere il senso dell’appartenenza. Quando, però, si perde di vista la comunione veramente cattolica, si corre il rischio di non guardare oltre al proprio giardino. Mentre il proprio giardino può sopravvivere solo in un ambiente sano molto più grande e vasto. Insomma, abbiamo bisogno della comunione interna, ma anche di quella con la grande Chiesa cattolica. Se viene meno la comunione, si indebolisce la testimonianza.

Cosa intende?
La testimonianza evangelica della riconciliazione, della giustizia e della profonda fraternità cristiana sarà fruttuosa nell’ambito politico e sociale soltanto se, prima di tutto, è vissuta tra noi. Non è raro notare, anche tra i cristiani, una specie di esclusivismo che tende a marginalizzare chi “non è dei nostri”. Del resto, in tutti i Paesi, incluso il Libano, i cristiani sono minoranze: saranno capaci di mostrare una faccia unita e credibile? Temo un po’ che al Sinodo ci si possa perdere nelle questioni della storia, delle tradizioni e dei riti, perdendo di vista la sfida della situazione attuale sui punti basilari della nostra fede cristiana e cattolica, inclusa la nostra comunione con il Papa.

Le comunità che lei guida cosa attendono dal Sinodo?
Finora non ho visto tanto entusiasmo tra la gente. Questo sicuramente è dovuto al fatto che non è facile far passare le informazioni. Poi, in mezzo alla crisi, la gente ha a cuore altre preoccupazioni: non perdere il lavoro, vivere nell’insicurezza economica... Ad ogni modo, mi sembra che i nostri fedeli aspettino che venga fatta conoscere una realtà che, finora, non era molto spesso nella coscienza comune della Chiesa cattolica: che esiste una comunità vitale nel Golfo, anche se composta da migranti.

Questi cristiani immigrati come vivono, nella nuova situazione, il rapporto con la loro fede?
Un’esperienza stupenda, nella Chiesa di migranti nel Golfo, è vedere che la fede ci porta molto di più, perché non c’è nient’altro che ci dà sicurezza. È vero che quasi tutti sono venuti nella regione alla ricerca di una migliore situazione materiale. Però, in questa situazione, non pochi scoprono un bisogno forte di curare la propria fede. Tanto più se non vogliono correre il rischio di perderla. Certo, visto che nelle nostre società l’islam ha il monopolio, non possiamo vivere i valori cristiani in modo da offrire un contributo diretto alla loro costruzione. Ma il modo stesso con cui viviamo la fede crea delle sfide per gli altri e rafforza la solidarietà tra i cristiani stessi. 

Nell’impossibilità di radicarsi dove si trovano, come vivono questi cristiani il rapporto con l’ambiente sociale?
Non essere davvero radicati nella società ci fa vivere il provvisorio. Nessuno sa con sicurezza quanto tempo può rimanere in un Paese. Molti vivono una situazione di vita molto artificiale: in ambienti residenziali dove sono in contatto soprattutto con gente della stessa provenienza, in labour camps cui tornano ogni sera stanchi del lavoro, moltissimi separati dal coniuge, con i problemi morali e affettivi che possono sorgere... È vero che c’è chi ha fatto un salto nella società grazie all’abilità professionale e al successo economico. Ma, generalmente, la nostra gente vive in condizioni modeste e non gode di grande stima sociale. È gente necessaria per l’andamento della macchina, ma non necessariamente amata e stimata.

Si tratta di una realtà veramente di “Chiesa pellegrina”, potremmo dire?
È così. Come ho accennato, non abbiamo le strutture di una Chiesa “normale”. Il fedele arrivato ieri, così come lo stesso Vescovo, è “in transito”. Questo ci fa sentire il carattere pellegrino della Chiesa molto più forte che altrove.

Le lingue, le culture e le tradizioni dei cristiani che arrivano nel Golfo sono diversissime. Babele o mosaico?
Le nostre comunità sono composte da gente del mondo intero, anche se la stragrande maggioranza è di origine filippina e indiana. Basta vedere gli orari delle messe appesi nella bacheca di una nostra parrocchia: oltre all’inglese, la nostra lingua franca, si trovano anche il tagalog, il malayalam, l’arabo, il konkani, il tamil, il singalese, l’urdu, il francese, l’italiano, il tedesco, lo spagnolo...

Che messaggio viene ai cristiani dell’Occidente e a quelli delle Chiese orientali dalla vostra esperienza?
Mi sembra che proprio questa esperienza del provvisorio, dell’essere pellegrini, dovrebbe marcare un po’ di più anche altre Chiese. Anche la comunione interculturale, interrazziale e interrituale può essere di esempio. Da noi, la prima sfida è essere un fedele convinto. Solo in un secondo tempo, viene la domanda: «A quale gruppo appartieni?». La solidarietà tra i cristiani e la loro sensibilità per i bisogni altrui è in qualche modo un modello. Lo vedo quando c’è un disastro in qualche parte del mondo: la generosità dei fedeli nel condividere ciò che hanno con chi è nel bisogno mi stupisce sempre.

Quali sono le realtà più vive e cosa le chiedono?
Di solito le nostre poche parrocchie sono sovraffollate durante le molte messe. Sperimentare l’entusiasmo e la fede viva di queste persone è un conforto anche per un pastore della Chiesa in Arabia. Quel che chiedono questi fedeli è che il Vescovo e i preti siano testimoni fedeli e gioiosi del Signore. Che siano servi della loro gioia e compagni della loro sofferenza. Poi non è raro che aspettino da noi anche assistenza in problemi relazionali ed economici, e ce ne sono...

Come sono i rapporti con le autorità degli Emirati e dell’Arabia?
Di solito i rappresentanti ufficiali di altre religioni, soprattutto delle Chiese cristiane, godono di stima. Non ho mai sperimentato disprezzo da parte delle autorità. Conoscono ancora la cultura dell’ospitalità, anche se poi nel prendere delle decisioni sono molto più caute e lente. Ma può tranquillamente capitare che, ad un ricevimento, anche uno sceicco nel suo vestito tradizionale abbracci in pubblico il Vescovo cattolico con la croce al petto.

 

© TRACCE n° 9 - ottobre 2010