Le ragioni della tragedia cristiana in Medio Oriente

I ripetuti attacchi terroristici che nelle scorse settimane hanno preso di mira la minoranza cristiana in Iraq sono stati determinanti nel riportare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica occidentale sulla situazione dei cristiani in Medio Oriente.

All’irruzione nella Chiesa di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, in cui circa 60 persone hanno perso la vita, hanno fatto seguito una serie di attentati coordinati in zone cristiane che hanno ucciso almeno 6 persone la scorsa settimana.

La nuova ondata di violenza ha fatto temere che la fuga dei cristiani dall’Iraq possa registrare un nuovo picco, erodendo ulteriormente l’ormai esigua presenza cristiana in Mesopotamia, già dimezzata dagli ultimi sette anni di guerra.

Ma l’Iraq non è l’unico paese in cui i cristiani d’Oriente affrontano una situazione difficile. In Libano essi sono coinvolti nell’aspra lotta politica interna al paese, e sono divisi tra i due fronti contrapposti che in questo momento si battono attorno alla questione del Tribunale Speciale, incaricato di investigare sull’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri.

In Egitto, le tensioni confessionali fra copti e musulmani si sono intensificate negli ultimi anni. Lo scorso Natale si sono registrati scontri nel sud del paese, a seguito dell’uccisione di alcuni cristiani da parte di uomini armati a Naj Hammadi. In generale i copti egiziani lamentano discriminazioni e soprusi nei loro confronti.

A Gerusalemme, alla fine di ottobre un incendio doloso ha provocato ingenti danni alla Chiesa dell’Alleanza, nella centralissima Via dei Profeti. Sebbene le indagini siano ancora in corso, alcuni hanno rivolto il dito dell’accusa contro gruppi ebrei estremisti. L’episodio ricorda quanto sia delicata la situazione dei cristiani anche in Terra Santa.

UN SINODO PER I CRISTIANI D’ORIENTE

Nel mese di ottobre, si è svolto in Vaticano un sinodo della durata di due settimane  per discutere la questione dell’emigrazione dei cristiani dal Levante arabo, originata a sua volta dai conflitti, dalle discriminazioni e dai problemi economici che le comunità tuttora presenti in Medio Oriente devono affrontare.

Se prima della seconda guerra mondiale i cristiani costituivano circa il 20% della popolazione in Medio Oriente, oggi essi sono meno del 5%. Sebbene 12 milioni di cristiani vivano ancora nella regione, circa 7 milioni sono emigrati altrove.

Il sinodo ha messo in evidenza anche l’assenza di unità all’interno della Chiesa cattolica mediorientale, dove le differenze di tradizione e di rito, e il carattere etnico e nazionale di molte chiese, sono fonte di frammentazione e di reciproche incomprensioni. Nella sola Gerusalemme ci sono più di 10 differenti chiese cristiane, e tre patriarchi (latino, greco-ortodosso e armeno).

Il problema dell’emigrazione contribuisce a marginalizzare le chiese orientali. La giurisdizione dei patriarchi e dei vescovi solitamente è di tipo territoriale. Ma in alcuni casi, all’interno delle comunità orientali, i fedeli che vivono all’estero sono più numerosi di quelli rimasti nei paesi della regione.

Più di metà dei cristiani libanesi vivono in Occidente, negli Stati Uniti, in Canada, in Sudamerica, in Australia. Molti cristiani palestinesi sono emigrati in Cile. Circa metà dei cristiani che ancora vivevano in Iraq alla vigilia dell’invasione americana sono fuggiti dal paese; sebbene una quota consistente sia rimasta nella regione, rifugiandosi in Siria ed in Giordania, molti sono emigrati negli USA, in Canada, in Australia ed in Europa. L’imponente diaspora armena è presente non solo in paesi mediorientali come il Libano, la Siria e l’Iran, ma in Russia, negli Stati Uniti, in Francia e in Argentina.

Essendo l’autorità dei patriarchi d’Oriente limitata ai territori della regione mediorientale, a causa dell’emigrazione molti dei loro fedeli ricadono di fatto sotto la giurisdizione dei vescovi occidentali. In assenza di legami strutturati con le comunità religiose di provenienza, essi tendono ad abbandonare le tradizioni delle loro chiese d’origine.

IL MEDIO ORIENTE MUSULMANO È ANTICRISTIANO?

Dai dati a cui si è fin qui accennato si può già intravedere come il problema del declino delle comunità cristiane mediorientali sia solo in parte dovuto all’intensificarsi di sentimenti anticristiani ed alla recente ascesa del fondamentalismo islamico nella regione.

I recenti atti di violenza ai danni dei cristiani d’Iraq sono stati ampiamente condannati in tutto il mondo arabo – dagli sciiti e dai sunniti – ed anche da movimenti islamici come i Fratelli Musulmani e Hezbollah.

Diversi commentatori arabi hanno sottolineato che gruppi terroristici come al-Qaeda uccidono cristiani e musulmani senza distinzione, recando danno all’Islam stesso e contribuendo a distruggere l’identità plurale della civiltà arabo-islamica.

Ma gli attacchi terroristici ai cristiani sono un fenomeno recente e circoscritto, e non cancellano il fatto che gran parte del mondo arabo continua a mostrare grande tolleranza nei confronti della sua componente cristiana.

I casi più emblematici a questo proposito sono rappresentati dalla Giordania e dalla Siria, paesi che vanno orgogliosi della propria tolleranza ed armonia interconfessionale.

In Giordania i cristiani, che costituiscono circa il 4% della popolazione, hanno propri seggi in parlamento ed una rappresentanza permanente all’interno dei governi, e sono perfettamente integrati nella comunità economica e finanziaria. Hanno accesso a importanti cariche civili e militari, e contribuiscono alla vita culturale.

Anche la Siria, sebbene sia un regime non democratico (come del resto la Giordania), concede ampie libertà culturali e religiose, garantendo le minoranze in misura maggiore di altri paesi della regione. Ciò è vero in particolare per i cristiani, che sono ben integrati nella vita amministrativa ed economica del paese (non è invece vero per altre minoranze maggiormente discriminate, come i curdi).

Persino in questi paesi, tuttavia, l’emigrazione cristiana ha assunto negli ultimi anni proporzioni consistenti.

LE RAGIONI STORICHE DI UNA TENDENZA ORMAI RADICATA

Le ragioni dell’emigrazione dei cristiani e del declino delle comunità cristiane mediorientali – che, come abbiamo visto, non è un fenomeno degli ultimi anni, bensì il risultato di una tendenza pluridecennale – vanno dunque ben al di là della recente recrudescenza terroristica o di un generico sentimento anticristiano diffuso in alcuni ambienti musulmani estremisti. Tali ragioni sono molteplici, ed alcune risalgono a più di un secolo fa.

Esse vanno innanzitutto ricercate nella struttura composita del mondo arabo – un mosaico di etnie e religioni differenti – e nell’impatto che il colonialismo europeo e la spinta disgregatrice dei nazionalismi hanno avuto su questa struttura.

Negli ultimi due secoli, comunità cristiane mediorientali come gli armeni, i copti, i maroniti, ecc., furono – insieme ad altre minoranze non cristiane come i berberi, i drusi e i curdi – strumenti più o meno consapevoli di politiche coloniali o postcoloniali.

Le ideologie nazionaliste di provenienza europea diffusesi nel mondo arabo furono spesso fomentate, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, da potenze europee come la Francia, la Russia e l’impero asburgico, le quali erano interessate ad indebolire l’impero ottomano che allora controllava il Levante arabo.

Se gli arabi spesso non avevano motivazioni sufficienti a giustificare un’opposizione ideologica alla dominazione turca (ma pur sempre musulmana) degli ottomani, le minoranze cristiane ed ebraiche si rivelarono in molti casi più sensibili alle influenze provenienti dall’Europa.

Questi “influssi” esterni, che rimasero presenti anche dopo il crollo dell’impero ottomano, furono il primo fattore che avviò la disgregazione di un tessuto sociale e culturale come quello mediorientale, che se da un lato era estremamente composito e variegato, dall’altro era tuttavia reso omogeneo e coeso da secoli di convivenza e di storia comune.

Le influenze e le strumentalizzazioni straniere nei confronti delle minoranze cristiane spesso  fecero sì che esse iniziassero ad essere viste con diffidenza dalle comunità arabe musulmane, e spinsero parte delle comunità cristiane mediorientali a stringere rapporti più stretti con le potenze “d’oltremare”, a scapito dei loro legami storici con le società mediorientali. Ciò ha contribuito in maniera determinante all’insorgere del fenomeno dell’emigrazione cristiana verso i paesi occidentali.

INGERENZE ESTERNE E FALLIMENTO DELLO STATO-NAZIONE

Queste dinamiche hanno ovviamente assunto caratteristiche diverse da paese a paese, articolandosi in maniera differente in paesi come il Libano, l’Egitto, la Palestina o l’Iraq.

In Libano, ad esempio, la comunità maronita si era aperta ai contatti con l’Europa e con il Rinascimento già nel XVI secolo. Tre secoli dopo, ciò facilitò alla Francia il compito di presentarsi come paladina dei cristiani in Siria e Libano, la qual cosa avrebbe dato luogo a quella “relazione speciale” che sarebbe culminata con il Mandato francese su questi due paesi. La comunità maronita diventò così il principale punto d’appoggio della Francia nella regione, nel contesto della rivalità coloniale fra Parigi e Londra.

Un altro passaggio chiave nella storia della comunità cristiana libanese si registrò durante la guerra civile, in particolare quando tale comunità divenne “ostaggio” di una sua componente (il Partito falangista) la quale, abbandonando la tradizionale ostilità nei confronti del sionismo che fino a quel momento aveva accomunato tutte le componenti della società libanese, optò per un’alleanza con Israele all’inizio degli anni ’80 – ovvero per quello che le altre comunità libanesi considerarono invariabilmente come un “patto col diavolo”.

In Egitto, per i copti le cose cambiarono con il colpo di stato militare del 1952. L’integrazione nazionale fra musulmani e cristiani, avviata con successo dalla rivoluzione del 1919, subì una battuta d’arresto. L’insorgere di tensioni politiche e religiose mise in secondo piano il concetto di cittadinanza a favore dell’appartenenza religiosa.

In particolare, furono deleterie la decisione del presidente Anwar el-Sadat di etichettarsi come “presidente musulmano di uno stato musulmano”, e la sua politica di rafforzare i partiti islamici per contrastare l’opposizione laica e di sinistra che minacciava il regime.

Ciò ebbe l’effetto di far sentire i copti non rappresentati e non tutelati dallo stato, spingendoli a rafforzare le proprie tendenze identitarie ed a concepirsi sempre più come un gruppo separato dal resto della società egiziana.

Alcuni aspetti del caso egiziano possono essere generalizzati ad altri paesi arabi. Il fallimento dello “Stato-nazione” nel mondo arabo, le cui cause sono molteplici, ha impedito la nascita di uno stato in grado di garantire i diritti sociali, politici, economici e culturali dei propri cittadini su una base di uguaglianza.

La progressiva chiusura dello spazio pubblico, che ha escluso un numero sempre maggiore di cittadini, ha spinto questi ultimi a rivolgersi ad affiliazioni più ristrette, come il clan, la tribù o la setta religiosa di appartenenza. In conseguenza di ciò, controversie che insorgono fra cittadini che fanno riferimento a differenti affiliazioni possono facilmente degenerare in incidenti tra fazioni (etniche o confessionali) rivali.

L’esigenza dei regimi (non democratici) al governo di salvaguardare il proprio potere spesso li ha spinti a discriminare le minoranze, o viceversa a cooptarle ed a servirsene per i propri scopi politici, esponendole così a possibili rappresaglie da parte delle opposizioni politiche.

Le crisi economiche e sociali, i numerosi conflitti interni, e le molteplici aggressioni straniere, hanno ovviamente colpito  in primo luogo i gruppi minoritari, spingendoli a chiudersi all’interno delle proprie comunità ed a rafforzare il proprio senso di separatezza e di contrapposizione con le altre componenti del tessuto sociale.

Le minoranze cristiane non hanno fatto eccezione. Tali minoranze, che si sono sempre contraddistinte per l’alto livello d’istruzione e per i loro legami che vanno al di là dei confini regionali, hanno visto nell’emigrazione una strada percorribile.

Per la stessa ragione, però, l’emigrazione cristiana rappresenta un grave impoverimento per il mondo arabo, traducendosi in un’emorragia di competenze e di capacità, ed in una pesante perdita a livello culturale ed economico.

I CONFLITTI REGIONALI

Per i motivi che abbiamo fin qui esposto, molti commentatori mediorientali hanno sottolineato come l’emigrazione cristiana sia solo una conseguenza della grave situazione in cui versa il Levante arabo nel suo complesso.

Il desiderio di trasferirsi a vivere al di fuori della regione è estremamente diffuso nel mondo arabo, non solo fra i cristiani (questi ultimi, molto spesso, sono semplicemente tra coloro che, più di altri, possono permettersi di tradurre in realtà un simile desiderio).

In generale, l’emigrazione araba è allo stesso tempo una conseguenza della crisi politica, economica e culturale del Levante arabo, ed uno dei fattori che contribuiscono al prolungarsi di tale crisi.

Come ha scritto l’editorialista libanese Elias Harfoush, il problema dei cristiani d’Oriente è dunque ben più del semplice problema di una minoranza. Esso è il problema di un’intera regione “che è passata da una fase di rinascita e di illuminazione ad una fase di oscurità e decadenza”.

Ma se il Vaticano si occupa delle sorti dei suoi fedeli nel Levante – prosegue Harfoush – è dovere degli arabi “essere più attenti al destino della regione nel suo complesso, la quale si sta consumando dall’interno e sta perdendo i suoi elementi di vitalità e le sue difese giorno dopo giorno, diventando ancora una volta oggetto delle ambizioni delle potenze che la circondano”.

In generale, al declino del Levante arabo – così come al fallimento dello Stato-nazione nella regione – hanno dato un contributo determinante i conflitti regionali. Fra essi, centrale è il conflitto arabo-israeliano, nel quale le minoranze cristiane sono rimaste coinvolte al pari degli arabi musulmani.

Nei Territori palestinesi, i cristiani arabi subiscono le stesse discriminazioni di cui sono vittime i palestinesi di fede musulmana, ad opera dell’occupazione israeliana. All’interno di Israele, i cristiani costituiscono ormai appena il 2% della popolazione totale, e si tratta di una percentuale che si è costantemente assottigliata dopo la fondazione dello stato ebraico.

I conflitti e le perenni tensioni in Libano hanno anch’essi contribuito all’esodo di cristiani dal paese, riducendo la loro percentuale ad appena il 35% della popolazione totale (una volta i cristiani erano più della metà della popolazione libanese).

IL CASO DELL’IRAQ

Il conflitto iracheno rappresenta senza dubbio l’evento più drammatico registratosi in Medio Oriente nell’ultimo decennio, e costituisce anch’esso un caso emblematico della tragedia dei cristiani nella regione.

Degli 850.000 cristiani iracheni che ancora vivevano nel paese alla vigilia dell’invasione americana, più della metà sono fuggiti all’estero. Le loro chiese sono state distrutte, molti di coloro che sono rimasti hanno subito violenze, sono stati vittime di sequestri, e diversi membri della comunità sono stati uccisi.

Molti cristiani iracheni sono rimasti coinvolti loro malgrado nel conflitto intercomunitario che ha visto contrapporsi sunniti e sciiti, ma anche arabi e curdi.

La minoranza cristiana d’Iraq aveva vissuto abbastanza tranquillamente nel paese fino alla guerra del Golfo del 1991. La Costituzione irachena del 1925, sebbene riconoscesse l’Islam come religione di stato, garantiva a tutti i cittadini la libertà di fede e di culto. I cristiani disponevano di alcuni seggi in parlamento e di alcuni ministeri statali.

La nuova Costituzione laica e repubblicana che fu adottata all’indomani del rovesciamento della monarchia nel 1958, confermava di fatto le garanzie di cui avevano goduto i cristiani fino ad allora. Sotto il regime di Saddam essi vissero con relativa tranquillità, talvolta anche occupando posizioni di spicco all’interno del governo e dell’amministrazione statale (il ministro degli esteri Tarek Aziz era cristiano).

Dopo la ribellione curda nel nord del paese nel 1991, i cristiani godettero di un periodo iniziale di maggiore libertà nel Kurdistan iracheno, a cui seguirono però atti di violenza dei curdi nei loro confronti. Il durissimo embargo internazionale imposto all’Iraq e l’instabilità interna favorirono l’inizio di un vero e proprio esodo da parte dei cristiani.

Con l’invasione americana del 2003, per i cristiani si scatenò l’inferno della guerra e dei conflitti settari. Questa realtà fu accompagnata da un nuovo dato allarmante: l’invasione militare fu affiancata da un’ “invasione” religiosa da parte di organizzazioni cristiane evangeliche americane, con l’obiettivo ben poco velato di convertire i curdi musulmani e addirittura di rievangelizzare i cristiani!

Come denunciò nel 2005 lo stesso patriarca della Chiesa caldea locale, Emmanuel III Delly, “gli evangelizzatori non vogliono il bene dell’Iraq né del cristianesimo”.  Queste organizzazioni missionarie, ignorando 2000 anni di storia cristiana in Iraq, hanno contribuito a destabilizzare il paese ed “a creare quell’inquietante confusione fra cristiani americani e cristiani orientali dalle drammatiche conseguenze che tutti conoscono” – come ha scritto l’accademico Joseph Yacoub.

Una simile invasione culturale e religiosa, che ha introdotto un pericoloso corpo estraneo in un paese già dilaniato dalla guerra, ed ha esposto i cristiani locali al pericolo delle rappresaglie terroristiche, è un tipico esempio delle politiche coloniali e neocoloniali che diverse potenze occidentali hanno adottato nei confronti della regione nel corso degli ultimi due secoli.

Tali politiche hanno contribuito enormemente ad alterare il tessuto sociale e culturale del Levante arabo, favorendo l’insorgere dei fondamentalismi e danneggiando irrimediabilmente le minoranze locali come quella cristiana, che per secoli avevano rappresentato tasselli vitali ed essenziali del ricchissimo mosaico mediorientale.

 

© www.medarabnews.com - 17 novembre 2010