“Destinati a morire nel silenzio, nell’indifferenza generale”. Monsignor Claudio Gugerotti, nunzio apostolico in Ucraina, non usa giri di parole per descrivere la situazione nella regione orientale del Paese dove i combattimenti, nonostante gli Accordi di Minsk, nonostante le prese di posizione e le promesse, non sono mai cessati. Il nunzio è stato in quelle zone il 14 e il 15 febbraio. In particolare ha visitato la città di Avdiyivka presa di mira da bombardamenti pesanti a fine gennaio che hanno causato decine di morti, distruzione, interruzioni del servizio di erogazione di acqua e di luce e, quindi, mancanza di riscaldamento. Il nunzio racconta di case danneggiate e di una città in parte disabitata, perché la gente è sfollata.

“Ogni notte si sentono bombardamenti. Non esiste una stabilità. È uno stillicidio costante”.

Lei ha incontrato a Sviatohirsk i bambini sfollati. In quale situazione li ha trovati?
I bambini sono apparentemente sereni. Ospiti in strutture lontane dai luoghi del conflitto, si fanno compagnia. Ma i traumi si notano in altre circostanze, quando tornano in famiglia e non sono comunitariamente impegnati. Quindi noi non sappiamo ancora valutare quali siano realmente le conseguenze psicologiche di questi traumi. C’è poi un secondo elemento che pesa molto ed è il fatto che gli adulti sono sconvolti. Vivono da più di due anni in questa situazione d’instabilità e i nervi non reggono più. La gente non riesce quasi più a reagire. Le famiglie sono divise, sfollate in zone diverse. C’è poi una grande quantità di persone che non può lasciare la propria casa o perché non ha i mezzi, o perché isolata, o perché malata e anziana… e quindi vive con un pezzo di pane e un po’ di te e con temperature che raggiungono i 16/17 gradi sotto zero.

In Europa pensare che ci sia una moria di questo genere è una scandalo per tutte le coscienze.

Un’insegnante, per esempio, è scoppiata a piangere davanti me e ai bambini, chiedendomi: “Dica al Papa che faccia tutto il possibile per liberarci da questa guerra assurda e inutile”.

Che cosa le ha detto?
Le ho assicurato che noi, cattolici in Europa, preghiamo per loro, che non li abbandoniamo. Le ho detto che il nostro ricordo è con loro e che stiamo facendo di tutto per sostenere l’aiuto che il Papa promuove personalmente per loro. Ma la sensazione, che loro hanno, è quella di sentirsi abbandonati, di non appartenere a nessuno.

Ma, secondo lei, perché si parla così poco di Ucraina?
Una delle ragioni è il fatto che purtroppo i focolai di violenza nel mondo sono numerosi. Una seconda ragione è che probabilmente non fa comodo parlarne.

A chi non fa comodo e perché?
Alle potenze che sono impegnate nella guerra. I conflitti congelati diventano, in qualche modo, una sconfitta generale per tutti, in cui nessuno ha la vittoria. Allora si preferisce non portarli all’attenzione di opinione pubblica. Ma il primo martirio di questa gente è il silenzio internazionale che è stato rotto, in qualche modo, da questa iniziativa del Santo Padre.

Ce ne può parlare?
È la grande raccolta di fondi che è stata fatta lo scorso anno ad aprile in tutta l’Europa, per sovvenire alle necessità di queste persone.

Sono stati raccolti 16 milioni di euro, di cui 5 sono stati dati dal Papa personalmente.

C’è un comitato tecnico presieduto dal vescovo Jan Sobilo che ha il compito di distribuire questi fondi sulla base di una certificazione piuttosto rigorosa che noi chiediamo. Da questa somma sono stati prelevati recentemente 200mila euro per interventi immediati in aiuto alla popolazione in seguito all’ultima emergenza nella zona.

Come verranno utilizzati?
In parte sono dei voucher con destinazione specifica alle famiglie con i bambini per dare possibilità di accedere ai prodotti necessari per nutrirli e curarli. Una parte è destinata ad azioni di cura psicopedagogica rivolta ai bambini per alleviare traumi particolarmente violenti. E un’altra parte è destinata alle riparazioni degli edifici, soprattutto scuole.

Se l’Europa è indifferente, il Papa segue invece con estrema attenzione la situazione. Come lo fa? E che cosa le dice?
Costantemente. Ci sentiamo, ci scriviamo, anche per mail. Lui è impegnato e interessato a vedere che questa operazione umanitaria giunga a buon fine. E poi la sua seconda preoccupazione è che questa guerra finisca.

Ma i componenti di questo conflitto sono così complessi, sfuggenti e intestarditi che è estremamente difficile riuscire anche solo a favorire la costruzione di un dialogo.

E quindi?
Primo, ci vuole la buona volontà che consenta di aprirsi reciprocamente. Secondo, occorre che le potenze internazionali e le organizzazioni internazionali prendano sul serio il problema. Non bastano generiche condanne. Terzo, occorrono gli strumenti perché le decisioni o gli accordi presi vengano messi in pratica. L’Osce, per esempio, ha rilevato che in questi ultimi combattimenti sono stati usate da tutte e due le parti armi che gli accordi di Minsk avevano proibito. È inutile quindi che si faccia un accordo se poi l’accordo viene disatteso immediatamente.