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Lev Razgon e l'umanesimo del dissenso

lev razgonNel numero in uscita della rivista "La nuova Europa" viene ricordato il decimo anniversario della morte di uno dei veterani del Gulag staliniano che, dopo diciassette anni di prigionia, fondò insieme a Sacharov e Kovalëv l'associazione Memorial. Pubblichiamo un estratto dall'articolo.

di Marta Dell'Asta

Lev Razgon è stato un dissidente sui generis, una figura che si presenta in maniera contraddittoria:  ex detenuto del Gulag staliniano, non ha mai partecipato alle battaglie del dissenso, eppure nel 1988 è stato lui, e non altri, a fondare con Sacharov e Kovalëv l'associazione Memorial (protagonista di un immenso lavoro di studio sul Gulag). Ancora:  un ex zek, che nonostante questo ha sempre lavorato per case editrici di Stato, ha accettato di essere reintegrato nel partito, e ha tenuto le sue memorie ben chiuse nel cassetto fino alla perestrojka.
Non sono mancate a questo proposito le polemiche nei suoi riguardi:  gli hanno rimproverato le parentele e le frequentazioni giovanili nell'élite del Partito, che hanno indotto qualcuno a considerarlo un personaggio ambiguo; gli hanno rimproverato anche di aver lavorato per l'amministrazione nel lager, mentre molti altri si rifiutavano di farlo; infine gli hanno rimproverato il debutto letterario tardivo, che getta un'ombra di conformismo sul suo libro. Presentata in questo modo, la sua non sembra una figura molto interessante, ma allora bisogna spiegare come mai le sue memorie del lager, arrivate dopo tutte le altre, siano state considerate un capolavoro del genere e lo abbiano inserito d'autorità nel novero dei grandi testimoni. E bisogna anche spiegare come mai personalità indiscusse come Sacharov lo abbiano incondizionatamente stimato.
Ma in fondo basta leggere ciò che scriveva, basta conoscerlo più da vicino perché i dubbi trovino una risposta. L'amico Marlen Korallov, copresidente di Memorial ed ex zek, ha risposto a una delle critiche:  "La sua carriera come controllore del lavoro nel lager? Esistevano, sì, gli zek che rifiutavano per principio i posti "da imboscati" e rimanevano per principio ai lavori comuni. Gloria e onore a loro. Ma onore anche a Razgon, che usando la "Grande bidonata", falsificando i rendiconti per i superiori, ha salvato con intelligenza e tenacia i servi affamati del Gulag dalla razione punitiva, dalla pazzia di un sistema escogitato per spremerli".
Un altro amico, Boris Zutovskij, dice anche che Razgon era "prudente", non "vile", perché i diciassette anni di lager gli avevano prodotto tali ferite da segnarlo per tutta la vita; ad esempio, dopo aver tagliato gli alberi nel lager, gli dava fastidio la sola vista dei boschi di cui tanto aveva gioito da ragazzo:  "I boschi della mia infanzia erano pieni di odori e di suoni (...) Poi venne il momento in cui per i boschi provai solo odio. Certo, erano boschi diversi quelli, boschi del nord, cupi di conifere, paludosi e privi di vita. Mai un pigolio, mai un uccello che cinguettava (...) Gli sparuti fiori del nord, poi, non hanno odore. E il bosco non era un luogo di gioia, ma di lavoro forzato. Nei lunghi anni passati all'estremo nord, quelli non furono boschi, per me, ma appezzamenti boschivi, terreni da disboscare. Non era alla loro bellezza che pensavo fissando quei pini eretti e rossastri o gli alti abeti muscosi, ma a quanti metri cubi di legna avrebbe dato il tal albero, e quanto legname effettivo se ne poteva ricavare:  era un riflesso condizionato".
Per lo stesso motivo non amava frequentare gli altri ex detenuti e non voleva vedere fotografie di campi:  il ricordo lo faceva star male. A causa di questa prudenza, frutto di una sofferenza mai placata del tutto, il suo itinerario spirituale è stato forse più lungo degli altri, ma molto radicale e sincero.
A complicare il suo percorso c'era anche il fatto che Razgon è stato molte cose nella sua vita:  è stato comunista sin da piccolo (era nato nel 1908), quasi in via ereditaria, come figlio e parente di bolscevichi attivi ed emergenti. Ma prima di quello, era un ebreo nato in uno shtetl bielorusso, partecipe in ogni sua fibra di un modo d'essere, di una cultura e una comunità che costituivano un universo a sé. E infine Razgon è stato una vittima del Gulag, ma una vittima attiva, che da questa esperienza ha tratto la forza per una vera rivoluzione interiore.
"Ho la sensazione di aver vissuto numerose vite completamente differenti. Ma in nessuna sono stato una semplice "vite". Era Stalin a considerarmi una "vite", io invece mi consideravo, ed ero a tutti gli effetti, un attivo costruttore del sistema socialista; ho contribuito a svilupparlo nella misura delle mie forze e credevo che questo sistema ci avrebbe portato al luminoso futuro, all'eguaglianza universale. È stato un duro lavoro intellettuale, oserei dire, una vocazione. La "vite", del resto, non risponde dell'intera macchina".
Questa posizione così personale anche all'interno della grande ideologia, ha fatto sì che le prove più umilianti non lo incattivissero, ma anzi facessero sbocciare in lui quell'umanità piena che lo ha reso in qualche modo un'autorità morale, senza che lui lo avesse mai cercato.
In realtà in Razgon affiora chiaramente una struttura personale religiosa, consolidatasi nelle condizioni critiche del lager ma rimasta sempre indeterminata, con un Dio che c'è e non c'è, perché inconoscibile e lontano; la lettera scritta in lager alla figlia si concludeva proprio così:  "Ti protegga il Dio in cui non credo!". Quel che restava in lui era l'attaccamento a dei valori superiori indiscutibili:  "È un tratto del mio carattere quello di essere tollerante, cordiale e pacato... e di credere in un futuro buono. In questo senso sono un uomo profondamente credente. Anche in lager ho cercato di conservare i principi morali che ritenevo indispensabili per me in libertà. Altrimenti non sarei sopravvissuto. E devo riconoscere che in lager ci riuscivo più facilmente che da libero".
Non è da credere che la detenzione fosse poi così "facilitante", in realtà il faccia a faccia con la morte era drammatico, angoscioso:  "Quanta gente mi è morta sotto gli occhi di morte violenta, e in quella situazione ogni morte era violenta:  di malattia, di freddo, di fame e per troppo lavoro, per la brutalità dei carnefici; quanti sono stati fucilati innocenti, torturati a morte, calpestati". Ed è proprio per far fronte a tutto questo senza abbrutirsi che bisognava chiamare a raccolta tutte le risorse della propria umanità, dell'educazione familiare, di una cultura secolare.
Nel far questo Razgon aveva acquistato con sudore e lacrime quella tolleranza, quella illimitata accoglienza che tutti poi gli avrebbero riconosciuto:  "La mia tolleranza non significa affatto che guardo la vita con gli occhiali rosa, o che ho dimenticato il mio passato, e quello del mio Paese. No, non ho dimenticato, e porto tutto il peso della mia responsabilità davanti agli uomini, al mio paese, a me stesso. Non è un peso leggero. (...) Cinquant'anni fa sì, sarei stato disposto ad ammazzare quelli che avevano ammazzato Oksana (...) ora mi è indifferente. Non ho provato alcun piacere quando ho letto in un fascicolo negli archivi del kgb, che uno dei suoi assassini è stato torturato e fucilato dai suoi compagni cekisti".
Il punto di forza della sua umanità cordiale era proprio questo sofferto senso di corresponsabilità, che gli veniva dall'aver partecipato alla vita del Partito e ai suoi ideali; non si sentiva, in coscienza, di prenderne le distanze come se fossero totalmente altro da lui:  "Io sento tutto il peso della responsabilità per ciò che è avvenuto nel mio Paese. Direi di più, credo addirittura di non aver saldato i conti con i miei diciassette anni di lager. No. Continuo a portare il peso di questa responsabilità sia davanti alla società sia, soprattutto, davanti a me stesso... Non ritengo di aver saldato il conto. Il conto è saldato solamente quando si riconosce fino in fondo quello che si è fatto, e quanto siamo tutti colpevoli - chi più, chi meno - per quel che ci è successo. Perché qualcosa è successo a tutti quanti:  a chi stava dentro come a chi metteva dentro, e pure a chi ha scampato entrambi questi calici. Tutta la società era malata, di sani praticamente non ce n'era, tranne rarissime eccezioni".
Ma il senso di responsabilità andava oltre i destini politici e sociali del Paese, entrava nell'intimo dei rapporti familiari, e lo interrogava severamente, come si capisce dalle pagine che dedica alla madre. L'entusiasmo rivoluzionario, il mito dell'uomo nuovo che aveva inseguito, oltre ad aiutare a uccidere i corpi aveva fatto qualcosa d'altro, aveva ucciso la speranza di molti, compresa sua madre.
Una volta morto Stalin, Razgon era riuscito con fatica a tornare a Mosca, dove era stato riabilitato e riammesso nel Partito, e questo gli era parso un minimo risarcimento per quanto aveva passato. Aveva ripreso la sua attività come scrittore di testi per l'infanzia e di volgarizzazione scientifica, ed era entrato nell'Unione degli scrittori; intanto però redigeva in segreto le sue memorie. Nel 1987 il settimanale "Ogonëk" aveva pubblicato, con enorme successo, il capitolo intitolato "La moglie del presidente", in cui narrava la storia drammatica della moglie di Kalinin. Nel 1988 La nuda verità era uscito per intero sulla rivista "Junost'", e i lettori sovietici avevano subito amato il suo modo lieve, spesso ironico e distaccato di raccontare  fatti   intollerabilmente tristi.
Questa pubblicazione lo aveva finalmente liberato dal timore che lo bloccava da anni, togliendogli una specie di pesante tabù psicologico; in questo senso, forse, Razgon aveva ragione a dire che nel lager era stato più facile restare fedele ai propri principi. In quegli anni aveva riacquistato il senso del fare memoria che aveva concepito nel campo:  "In lager sopravvivere era l'unica forma di resistenza al regime. Ogni giorno in cui sopravvivevo era un colpo inferto a Stalin. Pensavo che se fossi sopravvissuto avrei raccontato tutto. Avrei potuto raccontare quello che non aveva potuto raccontare chi era morto. Era una delle sensazioni più dolorose vedere che gli uomini scomparivano e non ne restava più niente, perché tutti i loro cari erano ridotti in polvere".
Da quel momento si era impegnato a fondo e non avrebbe più smesso di spendersi generosamente fino alla morte. Nel 1989 si era coinvolto col gruppo di ex detenuti che voleva fare qualcosa per assicurare che il sistema dei campi non fosse cancellato e dimenticato, ma in quest'opera, che avrebbe portato alla nascita di Memorial, si era scontrato con una cocente delusione:  "Abbiamo scoperto che né il potere politico né la società volevano tornare a ricordare il passato (...) Fra qualche giorno compirò 90 anni e ci penso con amarezza. Non perché la vita finisce, questo è un fattore biologico naturale, ma sul piano storico, sociale. La memoria storica del nostro popolo non si è risvegliata. Anzi, ho la sensazione che la società cerchi di dimenticare tutto quello che ci turba (...) Mi sento in qualche modo colpevole perché non sono stato capace. Nessuno di noi è stato capace, non ci hanno sostenuto. Perché? Questa domanda richiede una lunga riflessione. La nostra società è ancor oggi spaccata fra quelli che mettevano dentro, e quelli che venivano messi dentro. E in larga misura oggi prevalgono i primi".
Ma nonostante tutto non aveva tirato i remi in barca, concentrandosi sulla propria vecchiaia e le proprie numerose malattie, era rimasto costantemente disponibile, attento ai bisogni altrui, preoccupato nel vedere la piega presa dalla società russa post comunista:  "Purtroppo non abbiamo fatto molta strada dagli anni passati quanto a psicologia, ad atteggiamento morale, nel riconoscere la nostra responsabilità e soprattutto il valore della persona umana".
La sua battaglia era diventata l'abolizione della pena di morte in Russia, e non si stancava di richiamare da tutte le tribune i pericoli del momento attuale, l'imbarbarimento dei valori, la mancanza di misericordia. Per questo motivo nel 1992 aveva accettato un incarico molto gravoso, soprattutto per un uomo già provato come lui, quello di far parte della rinnovata commissione per la grazia presso la presidenza della Repubblica russa. Concretamente, questo voleva dire dedicare tre intere giornate ogni settimana alla lettura di enormi dossier giudiziari, il cui contenuto talvolta lo faceva tremare; ma, come aveva detto in un'intervista:  "Questo è, per dirla in breve, un bene incredibile. Non per chi riceve la grazia col mio aiuto, ma per me stesso. Sì, è un lavoro pesante, direi un'opera morale, spesso di notte non dormo sotto l'impressione di quello che ho letto nei fascicoli. Ma mi purifica l'anima. Sono felice di aver scelto, ed essere stato scelto per questa missione. E sono convinto che questa attività porterà buoni frutti al nostro Paese".
In tutto questo, Razgon rimaneva un uomo ilare, pur carico dei vecchi ricordi e delle nuove delusioni, aggravate da diversi infarti. Molti si sono chiesti come conciliasse l'immutabile gioia di vivere con la sua tremenda biografia. In qualche occasione Razgon aveva risposto a questo interrogativo:  "Quando noi diciamo che bisogna sradicare la delinquenza, combattere il male, intendiamo che sarà qualcun altro a farlo, non noi. In realtà si può sradicare il male solo se ciascuno di noi diventerà più buono. Può suonare ingenuo, ma non ci sono altri modi per cambiare la società e la nostra vita".

(©L'Osservatore Romano - 9 agosto 2009)