I nuovi orizzonti di una incredibile parentela

047Q07AAnticipiamo l'introduzione del vice decano del Collegio cardinalizio al libro di Nathan Ben Horin Nuovi orizzonti tra ebrei e cristiani (a cura di Piero Stefani, Padova, Edizioni Messaggero Padova, pagine 168, euro 12), che sarà nelle librerie italiane dalla prossima settimana.

di ROGER ETCHEGARAY

Sono nato a Espelette, villaggio dei Paesi Baschi francesi. Sono molto legato alla mia terra. Da bambino là non ho mai incontrato neanche il leggendario "ebreo errante". Ricordo che quando andavamo dal sarto a Bayonne mia madre mi sussurrava che era "ebreo". Allora mi sorprendevo a vedere che era un uomo come tutti gli altri. In seminario nei confronti dei "giudei" non regnava alcun "insegnamento del disprezzo", dominava l'insignificanza: era come se gli ebrei non esistessero. Sta di fatto, però, che la mia prima tonaca fu cucita proprio da quel sarto ebreo. A tanti anni di distanza, mi appare quasi un piccolo segno. Oggi so di avere due terre natali: oltre che alle falde dei Pirenei, sono nato anche a Gerusalemme. Come dice il Salmo 87, "tutti là siamo nati". Senza la fede di Abramo e dei suoi discendenti non ci sarebbe neppure la nostra. La dichiarazione conciliare Nostra aetate, n. 4, inizia, in modo quanto mai conveniente, ricordando il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato alla stirpe di Abramo. Ma in fondo lo aveva già detto san Paolo. Nella Lettera ai Romani, egli ammonisce i credenti di origine pagana a non menar vanto e a ricordarsi che "non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te" (Romani, 11, 18). È dunque l'ebreo che mi porta.
 In seguito ebbi occasione di incontrare molti ebrei, specie in qualità di arcivescovo di Marsiglia dove gli ebrei erano migliaia e che contava ventuno sinagoghe. Ebbi anche l'onore, nel 1972, di accogliere nella mia casa parrocchiale la seconda riunione del Comitato internazionale di collegamento fra la Chiesa cattolica e le organizzazioni mondiali ebraiche. Vi erano grandi nomi del rabbinato americano come Henry Segman e Marc Tannenbaum e il professor Zvi Werblosky dell'Università ebraica di Gerusalemme. Questi contatti mi fecero toccare con mano l'importanza, ma anche le difficoltà, del dialogo. Conosciamo troppo poco il mondo ebraico e restiamo spesso spiazzati dalla varietà degli orientamenti in esso presenti. C'erano ebrei ortodossi, che osservavano con rigore tutti i precetti, e c'erano altri di orientamenti più liberal e dall'osservanza più elastica; ma tutti, senza problemi, si riconoscevano reciprocamente come ebrei. Soprattutto andavo scoprendo un aspetto giustamente rimarcato più volte in questo libro: vale a dire l'impossibilità di evitare connessioni politiche soggiacenti a temi religiosi come quello riguardante il legame, vitale per la fede ebraica, fra un popolo e la sua terra, la Terra promessa.
Quando il Papa Giovanni Paolo II mi chiamò in Curia ebbi occasione di effettuare vari altri incontri. Tra essi restano vivi nella mia memoria quelli avuti con Nathan Ben Horin, una persona di squisita cortesia, di misurata discrezione e di grande efficacia diplomatica. Senza di lui l'apertura di "nuovi orizzonti" sarebbe stata senz'altro più faticosa. Ripenso a un episodio avvenuto nel 1985, epoca in cui il ministro Ben Horin stava per concludere la sua missione presso la Santa Sede. Ero stato invitato dall'Università Ben Gurion di Be'er Sheva per ricevervi un premio. Orbene, un cardinale di Roma non era mai andato ancora - tranne a titolo personale - in Israele, uno Stato che, allora, non tratteneva rapporti diplomatici con il Vaticano. Quando l'informai dell'invito, il cardinal Casaroli, segretario di Stato, era dubbioso. Mi disse: "Vada dal Papa"… il quale non esitò un istante. In questa decisione c'è tutto lo spirito di Giovanni Paolo II. L'anno dopo il Papa avrebbe compiuto la sua storica visita alla sinagoga di Roma, alla quale ero presente. Sotto il suo pontificato sarebbe anche avvenuto il riconoscimento reciproco tra Israele e Santa Sede (1994). A metà degli anni Ottanta, il Papa guardava già in questa direzione, e una delle ragioni che hanno reso possibile questo orientamento è dovuta, ne sono certo, anche all'opera di Ben Horin.
Quel viaggio del 1985 mi permise di andare, a nome del Papa, a Yad Vashem, il memoriale dedicato alle vittime della Shoah. Vi sostai a lungo in raccoglimento. Quindici anni dopo vi sarebbe giunto di persona anche Giovanni Paolo II. Pensando a questo luogo, arriviamo alla svolta cruciale che pone un problema ancor più vero di quello delle radici. Ciò che mi sconvolge è vedere la persistenza del popolo ebraico malgrado tutti i pogrom, guardare alla sua sopravvivenza dopo i forni crematori. Non c'è qui forse la testimonianza inoppugnabile di una vocazione permanente, di un significato attuale per il mondo, ma soprattutto all'interno stesso della Chiesa? Dobbiamo ricordarci dei profeti e dei salmisti e di tutti i poveri del Signore che, attraverso tante generazioni, giungono a Maria figlia di Sion. Ma dobbiamo ricordarci anche dei loro discendenti attuali: coloro che, attraverso la loro solidarietà carnale e spirituale con la Scrittura, il loro rifiuto degli idoli e tanto spesso il loro martirio, sostengono la nostra fede nel Dio tre volte santo. La grande, inevitabile domanda che è posta alla Chiesa è quella della vocazione permanente del popolo ebraico, del suo significato per gli stessi cristiani. Non è sufficiente scoprire la ricchezza del nostro patrimonio comune. La perennità del popolo ebraico crea per la Chiesa non soltanto il problema di relazioni esterne da migliorare, ma anche un problema interno che tocca la sua stessa definizione. Questa relazione, che non può essere vissuta se non come una tensione serena, non è forse uno degli elementi del dinamismo della storia della salvezza? Karl Barth diceva: "La questione decisiva non è "Che cosa puo essere la sinagoga senza Gesù Cristo?", bensì "Che cos'è la Chiesa finché ha innanzi a sé un Israele che le è estraneo?"".
Finché l'ebraismo rimarrà esterno alla nostra storia della salvezza, saremo alla mercé di riflessi antisemiti. Il 4 ottobre 1983, in presenza del Papa, in occasione di un sinodo dei vescovi sulla riconciliazione, dedicai il mio intervento al popolo ebraico. Iniziai con queste parole: "Nel corso di questo sinodo, il mio pensiero si volge in modo particolare verso il popolo ebraico; infatti proprio questo, fra tutti i popoli, deve essere il primo beneficiario della doppia missione di riconciliazione e penitenza della Chiesa nel suo cammino propriamente religioso, per il legame originario che unisce ebraismo e cristianesimo". Pronunciai anche queste altre parole: "Dopo aver definito fin dove dovrebbe spingersi la nostra missione di riconciliazione con il popolo ebraico, dobbiamo prendere altrettanto sul serio la nostra missione di penitenza e di pentimento per il nostro secolare atteggiamento nei suoi riguardi".
Oggi, dopo tanti anni, quando sono ormai entrato nella sera della vita, aggiungo altre parole. La misteriosa differenza e l'incredibile parentela fra ebrei e cristiani devono portarci insieme sulla medesima via del pentimento, della teshuvah, che è alla base dell'insegnamento biblico. Abbiamo attraversato la storia nell'opposizione Chiesa/Sinagoga, provocata dall'indurimento degli uni e degli altri, in quanto ciascuno è legato all'indurimento degli altri.
Su questa via della penitenza, Giovanni Paolo II resterà il nostro instancabile capocordata. Ha parlato molto spesso del perdono richiesto al popolo ebraico ferito a morte dalla Shoah. Ma a Gerusalemme, dopo la visita a Yad Vashem, accompagnò la parola con il gesto più inatteso per un Papa, ma più familiare a ogni ebreo pellegrino, quando, appoggiandosi al suo bastone da anziano, infilò in una fessura del Muro Occidentale (popolarmente conosciuto come Muro del Pianto) queste parole: "Dio dei nostri padri, tu hai scelto Abramo e i suoi discendenti per portare il tuo nome alle genti. Siamo profondamente rattristati del comportamento di coloro che, nel corso della storia, hanno fatto soffrire i tuoi figli, e ti chiediamo perdono. Desideriamo impegnarci in una fraternità autentica con il popolo dell'alleanza".

(©L'Osservatore Romano - 26 febbraio 2011)