Occidente e Oriente, tradizione e fondamenti

cena-perfettaPubblichiamo due interventi apparsi sul Blog, Settimo Cielo, di Sandro Magister.
Il primo di Enrico Morini e poi la sua risposta di P. Giovanni Cavalcoli.


Enrico Morini

Caro Sandro Magister,

ai tre commenti di Francesco Arzillo, di padre Giovanni Cavalcoli e del professor Martin Rhonheimer che hanno fatto seguito al mio intervento del 21 giugno su www.chiesa, questa mia non vuole essere una replica puntuale, non solo per ragioni di spazio e per un opportuno senso della misura, ma soprattutto perché tutti e tre gli interventi mi sono sembrati pacati nel tono, anche quando registrano il dissenso, e ugualmente preoccupati di quella continuità con la tradizione che hanno ben percepito trasparire anche dal mio scritto.

Il problema semmai non è che cosa si intenda per tradizione ma se ci sia stato un momento in cui in Occidente è successo qualcosa per cui questo flusso vitale, che non si è mai interrotto – lungi da me il mettere in dubbio questa fedeltà della mia Chiesa alla tradizione! – si è per così dire intorbidato.

A mio parere ciò è avvenuto in modo rilevante proprio allo scadere del primo millennio, donde la mia individuazione di un criterio ermeneutico del Concilio Vaticano II precisamente nel ritorno all’esperienza comune della Chiesa indivisa.

Anche l’Ortodossia sarebbe ugualmente bisognosa di una tale “riforma” della sua vita ecclesiale – anche se in misura sensibilmente minore rispetto all’Occidente cattolico-romano –, sempre seguendo il medesimo criterio. Anzi, ha già incominciato a farlo (basti pensare al “ritorno ai Padri” avviato dalla teologia russa dell’emigrazione) e qualora questo ritorno alla propria tradizione arrivasse anche alle sorgenti dell’ecclesiologia ortodossa – spogliandola degli elementi spuri accumulatisi in secoli di polemica – allora persino il tremendo problema del primato romano sarebbe forse suscettibile di soluzioni oggi ancora inimmaginabili.

Quanta strada sia ancora da fare in questo ambito nella Chiesa cattolica – sempre in quella interpretazione “accrescitiva” del Concilio, alla quale ho fatto riferimento – lo ha dimostrato nei giorni scorsi la preconizzata successione sulla cattedra episcopale milanese: senza minimamente eccepire sulla sostanza della scelta – data l’elevatissima personalità dell’eletto – il metodo mi ha lasciato interdetto. Trasferire un vescovo da una grande Chiesa che vanta radici apostoliche (Aquileia-Grado-Venezia) a un’altra grande Chiesa, che vanta, accanto ad un grande presente, un non meno grande passato (basti pensare alla tradizione ambrosiana) richiama troppo da vicino il trasferimento di un funzionario, che ha ben meritato, da una prefettura ad un’altra più prestigiosa e impegnativa. L’episodio mi è sembrato il sintomo di un forte scompenso ecclesiologico.

Francesco Arzillo dubita che questo ritorno “al primo millennio” sia stato l’intento riformatore dell’ultimo Concilio. Può darsi che non fosse questa l’intenzione, neanche della cosiddetta “maggioranza conciliare”. Nondimeno i casi da me citati – assunti a campione dall’ecclesiologia e dalla liturgia del Vaticano II – mi hanno convinto che questo è stato lo spirito del Concilio – direi quasi la sua provvidenzialità – e questa dovrebbe esserne la “recezione creativa e responsabile” (cito sempre, anche se ad altro proposito, Alberto Melloni).

Arzillo è, tra i miei recensori, colui con il quale mi sento in più forte sintonia – per il suo tono gioiosamente ecumenico – e ho apprezzato molto la citazione dell’ufficiatura italo-greca di san Francesco, che ho avuto l’onore di presentare due anni fa, presso l’Antonianum di Roma, insieme ad altri due colleghi più qualificati di me, nella recente e bella edizione di Anna Gaspari. Mi permetto di discutere solo le riserve da lui espresse in ordine alla continuità del palamismo rispetto alla grande teologia trinitaria orientale del IV secolo.

Anche se l’Ortodossia non è tutta “palamitica”, nondimeno questa teologia è – dai grandi concili del XV secolo – dottrina ufficiale della Chiesa ortodossa, senza che nemmeno il Concilio di unione fiorentino l’abbia smentita (e l’ufficiatura di san Gregorio Palamas è stata inserita da papa Paolo VI, sia pure come facoltativa, nei libri liturgici dei cattolici greci di rito bizantino). Il palamismo è l’esempio di quella evoluzione creativa – inaspettata forse in un contesto teologico, come quello orientale, ingiustamente accusato di “fissismo” – che ha saputo sviluppare, in continuità con la tradizione, intuizioni fondamentali dei Padri Cappadoci e di san Massimo il Confessore. Anzi, se è difficilmente assimilabile, da parte della speculazione teologica occidentale, la caratteristica distinzione in Dio di una essenza inconoscibile e di energie incerate ma partecipabili, tuttavia io credo che la rivendicazione di Palamas che è possibile, anzi è essenziale per la deificazione dell’uomo, conoscere Dio rappresenti l’apporto fondamentale di questo grande pensatore alla teologia cristiana “in toto”, senza distinzioni tra Est ed Ovest.

Dell’intervento di padre Cavalcoli ho apprezzato soprattutto il richiamo alla distinzione congariana fra la Tradizione e le tradizioni. Com’è provvidenziale una pluralità di teologie nella Chiesa (altra acquisizione del Concilio), di conseguenza esiste, con la medesima positività, una pluralità di tradizioni, tutte necessariamente diramantesi dalla Tradizione apostolica. Credo tuttavia che nessuna di esse sia omologabile alla Grande Tradizione, cioè a quella della Chiesa indivisa, vale a dire proprio quella del primo millennio.

Mi permetto solo di esprimere un dissenso nei confronti di padre Cavalcoli in merito – come ci poteva aspettare – a quanto egli scrive sul “Filioque”. La dottrina, relativa a questa formula, non mi pare assolutamente desumibile dalla Rivelazione. Certamente il Nuovo Testamento presenta ripetutamente il Figlio come agente dell’effusione dello Spirito, dai numerosi passi giovannei nel grande discorso dei capp. 13-16 (14, 16.26; 15, 26; 16, 7) sino alla grande Pentecoste giovannea di 20, 22, dove il Figlio – che aveva emesso lo Spirito sulla croce – lo sparge nel mondo con il suo soffio, alitando sui discepoli. Ma in tutti questi casi si tratta appunto dell’invio dello Spirito nel mondo, di quella fase cioè della storia della salvezza definita “economia”. Quando invece si tratta della sua relazione d’origine, cioè della “teologia”, la speculazione cioè che osa scrutare la vita intima di Dio, la stessa Rivelazione evangelica è esplicita nel postulare l’origine dello Spirito dal Padre solo (Gv 15, 26).

Più duro nella sostanza, anche se ugualmente cortese e rispettoso nella forma, mi è parso l’intervento di padre Rhonheimer, ma le sue puntuali argomentazioni non le trovo inconciliabili con il mio pensiero. Egli privilegia, uscendo da una dialettica contrapposizione tra ermeneutica della rottura ed ermeneutica della continuità, il concetto di “riforma” come criterio interpretativo del Concilio. La riforma però presuppone un modello a cui ispirarsi – e questo io credo di averlo identificato, nonostante su questa identificazione nessuno dei miei interlocutori sia d’accordo –; se questo modello non è chiaro e plausibile, la riforma fallisce.

Sperando di non urtare la sensibilità di nessuno, mi viene in mente quel poderoso movimento che ha talmente enfatizzato il concetto di riforma, da autodenominarsi proprio come la Riforma (“protestante”). Qual era il modello di questa “riforma”? La “ecclesiae primitivae forma”, come ho insinuato nel mio primo intervento? Proprio in questi giorni abbiamo avuto sotto gli occhi un esempio sconcertante: il pastore che ha celebrato nozze omosessuali. Proprio il protestantesimo (che talvolta assume l’aspetto di un “cristianesimo mondanizzato”, come severamente lo ha definito il teologo ortodosso francofono Olivier Clément), il movimento cioè che nella Chiesa ha formalizzato come dottrina qualificante la sua stessa esistenza il principio della “sola scriptura”, sembra avere dimenticato l’inequivocabile e inappellabile condanna scritturistica dell’omosessualità, dalle prescrizioni veterotestamentarie (cito solo Levitico 18, 22) al celebre passo di s. Paolo (Rom 1, 26-27), proprio l’apostolo più caro ai Riformati.

Su di un aspetto mi permetto garbatamente di dissentire da padre Rhonheimer, cioè nel suo riferimento al “cesaropapismo” orientale, o comunque imperiale. Nonostante le apparenze, si tratta di una categoria estranea all’Ortodossia. Il termine è stato coniato dalla storiografia per definire la situazione in cui l’imperatore fa il papa (come il suo contrario, la teocrazia, vuol dire che i sacerdoti fanno i politici). Nell’Ortodossia invece i due “poteri” devono agire in sinfonia: l’imperatore ha competenze ecclesiastiche (che gli vengono dall’essere l’Unto del Signore), ma nelle faccende dogmatiche la competenza esclusiva è dei vescovi. I due campi sono accuratamente delimitati: “cesaropapisti” sono stati gli imperatori eretici, come, ad esempio, i monoteliti e gli iconoclasti.

Non è vero, a mio parere, quanto affermava l’ultimo bozza di documento – poi decaduta – del dialogo teologico cattolico-ortodosso: che cioè, nei rapporti tra le due Chiese proprio nel primo millennio, l’”idelogia dell’impero romano” abbia rappresentato un fattore non teologico. Come ho cercato di dimostrare in una relazione tenuta a Varese nello scorso settembre, la “basileia” ha adempiuto non solo una funzione storica, ma ha avuto anche un compito teologico, se non altro nel conferire piena legittimità ai sette concili fondativi della Chiesa universale, convocandoli, presiedendoli e dando loro vigore normativo. Forse per questo, esaurita la sua funzione “ecclesiastica”, essa è provvidenzialmente venuta meno.

Enrico Morini

Bologna, 15 luglio 2011


P. Giovanni Cavalcoli

Ill.mo professor Morini,

Nel suo recente intervento lei si domanda, a proposito della Tradizione cristiana, “se ci sia stato un momento in cui in Occidente è successo qualcosa per cui questo flusso vitale, che non si è mai interrotto – lungi da me il mettere in dubbio questa fedeltà della mia Chiesa alla Tradizione! – si è per così dire intorbidato”.

Francamente non riesco a capire come un cattolico possa parlare di un “intorbidamento” della Tradizione apostolica, quasi che essa abbia smarrito la via. Al contrario, io vedo nel Concilio Vaticano II uno sviluppo dell’unica e medesima Tradizione originata dalla consegna fatta da Cristo agli apostoli ed ai loro successori, di quella Tradizione il cui “flusso vitale”, come lei dice giustamente, “non si è mai interrotto”.

Dalle sue parole, dunque, non risulta chiaro se questa Tradizione, che mi pare lei identifichi con la “Grande Tradizione” del primo millennio, con la divisione tra Oriente e Occidente del secolo XI sia proseguita o in qualche modo si sia interrotta o corrotta presso noi cattolici, mentre sarebbe stata conservata dagli ortodossi.

Non ho dubbi sul fatto che nel primo millennio sia la Chiesa occidentale che quella orientale godevano del medesimo tesoro della Tradizione, e neppure ho dubbi sulla necessità di recuperare questa unità che si è spezzata. Inoltre sono certo che il Concilio ha dato un importante contributo per il recupero di questa unità.

Ciò che invece io sostengo, come cattolico, – e in ciò mi distanzio da lei – è che i fratelli orientali, a seguito dello scisma, si sono separati da questa Tradizione, sicchè essa ha continuato a svilupparsi nella Chiesa Romana sino al Concilio Vaticano II compreso ed oltre, pur preoccupato, e su questo siamo d’accordo, di riannodare le fila con la Tradizione del primo millennio. Posso certo ammettere che gli orientali, come dice lei, non si sono fermati alla Tradizione del primo millennio, ma sono andati avanti grazie al palamismo; tuttavia mi domando se questo sviluppo della Tradizione, attuato in uno stato di separazione da Roma, può considerarsi ancora la divina Tradizione apostolica.

Per questo, se io concordo con lei che una direttrice del Vaticano II sia stata il “ritorno all’esperienza comune della Chiesa indivisa”, non credo che Roma intenda questo “ritorno” come rinuncia agli sviluppi della Tradizione cattolica successivi al 1054 e sono convinto che Roma proponga agli stessi orientali gli sviluppi del Vaticano II come autentico progresso della comune Tradizione apostolica, che noi cattolici abbiamo condiviso con Costantinopoli sino all’XI secolo.

Per quanto riguarda la famosa questione del “Filioque”, questo dato, come è noto, è stato inserito da Roma nel Simbolo della fede, quel “Credo” che solitamente si recita nella Chiesa cattolica tutte le domeniche. Ora per un cattolico è indubbio che ogni articolo del Simbolo è tratto dalla Rivelazione, o per il canale della Scrittura o per quello della Tradizione.

Non è qui evidentemente il luogo di riprendere questa controversia che si trascina da quasi dieci secoli, ma mi limiterò a dire che l’articolo del “Filioque” non va inteso come l’effetto di una presuntuosa “scrutazione della vita intima” della Santissima Trinità, poiché tale articolo non intende assolutamente dare le ragioni di questa vita divina, riducendola ad una specie di necessità logica di hegeliana memoria, ma semplicemente spiegare il significato intellegibile della stessa formula trinitaria e in special modo chiarire in che cosa consiste la distinzione tra il Figlio e lo Spirito Santo.

Infatti, come già notava san Tommaso d’Aquino, senza questa formula non sarebbe possibile distinguere il Figlio dallo Spirito Santo, perché l’unico modo che abbiamo per distinguere le divine Persone è la relazione di origine, come afferma il Concilio di Firenze del 1439-1442, nel quale pure si ottenne la riunione con i Greci. Importante infatti è il principio di teologia trinitaria enunciato da questo Concilio: “In Deo omnia sunt unum, ubi non obviat relationis oppositio”.

Noi infatti conosciamo le divine Persone mediante la categoria dell’origine, che comporta un’opposizione relativa, per cui la Persona divina appare come una relazione sussistente all’altra: il Padre dà origine al Figlio e allo Spirito; il Figlio e lo Spirito hanno origine dal Padre.

Anche la differenza tra il Figlio generato e lo Spirito Santo spirato si riconduce al fatto che queste due Persone hanno origine dal Padre, per cui tale differenza non è sufficiente a fondare la distinzione tra il Figlio e lo Spirito Santo.

Per distinguere il Figlio dallo Spirito Santo, occorre allora porre lo Spirito Santo come originato anche dal Figlio, secondo gli spunti che possiamo ricavare dal Vangelo e che lei stesso cita, benchè si debba riconoscere che essi non sono determinanti, ed in ogni caso nessun suggerimento ci viene offerto dal Vangelo che il Figlio abbia origine dallo Spirito Santo.

Piuttosto c’è anche da dire che il testo autentico recepito dalla Tradizione cattolica di Gv 15, 26 non è che lo Spirito Santo proceda “solo” dal Padre, ma che semplicemente procede dal Padre, senza quell’avverbio “solo”, che se fosse veramente presente occorrerebbe dar ragione alla Tradizione greca.

La concezione della Tradizione presso gli ortodossi assomiglia curiosamente all’impostazione della questione data da monsignor Lefebvre, con la differenza che mentre per gli orientali Roma avrebbe tradito la Tradizione nel 1054, per i lefebvriani Roma avrebbe consumato il suo tradimento nel 1962. Nell’uno e nell’altro caso manca la percezione che la Tradizione apostolica è stata affidata da Cristo a Pietro ed ai suoi successori, Tradizione che è certo un patrimonio di verità immutabili alle quali nulla si può aggiungere e nulla si può togliere. Tuttavia la conoscenza che di questo sacro deposito la Chiesa Cattolica acquista lungo i secoli progredisce e si approfondisce sino alla parusia. Il Vaticano II, come i Concili successivi al 1054, sono la testimonianza di questa fedeltà evolutiva alla Tradizione, evoluzione che non tradisce ma esplicita, chiarisce e sviluppa.

Giovanni Cavalcoli, OP

Bologna, 27 luglio 2011 

© http://magister.blogautore.espresso.repubblica.it/ - 27 luglio 2011