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L'uomo che si oppose al male

solzhenitsyn.jpgPerseguitato dal comunismo sovietico criticò aspramente qualsiasi ideologia
di Adriano Dell'Asta

Si racconta che un giorno abbiano chiesto a Hans Urs von Balthasar quale libro del XX secolo avrebbe salvato in un ipotetico naufragio su un'isola deserta; e la risposta sarebbe stata:  Arcipelago Gulag. Può sembrare strana questa scelta; uno dei più grandi teologi cattolici, dotato fra l'altro di un'eccezionale sensibilità artistica, che indica quello che di solito è ritenuto il libro maggiormente politico di un autore che ha rappresentato come il prototipo dell'opposizione al comunismo.
E invece la scelta ha una correttezza teologica, artistica e umana impressionante. Nel secolo della riduzione di tutto a politica, quando per questa riduzione e per le ideologie che l'avevano generata (il nazismo e il comunismo) l'umanità ha conosciuto abissi di negazione mai visti prima, quando intere società sono state frantumate, quando il volto della natura è stato deturpato definitivamente, quando "gli uomini hanno dimenticato Dio":  ecco proprio là dove tutte queste tragedie si sono consumate, l'opera di Solzenicyn si pone come una sorta di baluardo che prova il contrario di questa riduzione e una possibilità di uscita da queste tragedie.
Non è un'opera essenzialmente politica il suo Arcipelago, là dove si legge:  "Chiuda pure il libro a questo punto il lettore che si aspetta di trovarvi una rivelazione politica. Se fosse così semplice! Se da una parte ci fossero uomini neri che tramano malignamente opere nere e bastasse distinguerli dagli altri e distruggerli! Ma la linea che separa il bene dal male attraversa il cuore di ognuno. Chi distruggerebbe un pezzo del proprio cuore? Nel corso della vita di un cuore quella linea si sposta, ora sospinta dal gioioso male, ora liberando il posto per il bene che fiorisce. Il medesimo uomo diventa, in età differenti, in differenti situazioni, completamente un'altra persona. Ora è vicino al diavolo, ora è vicino al santo. Ma il suo nome non cambia e noi gli ascriviamo tutto. Ci fermiamo stupefatti davanti alla fossa nella quale eravamo lì lì per spingere i nostri avversari:  è puro caso se i boia non siamo noi ma loro. Dal bene al male è un passo solo, dice un proverbio russo. Dunque anche dal male al bene". Il valore dell'opera di Solzenicyn sta tutto in questo livello umano, artisticamente recuperato.
Nel secolo delle ideologie, la peculiarità di Solzenicyn è stata proprio quella di superare le ideologie non con un'altra ideologia, ma cogliendo esattamente nell'ideologia il male che aveva generato ogni altro male:  "Grazie all'ideologia è toccato al secolo xx sperimentare una malvagità esercitata su milioni"; o ancora:  "la fantasia e le forze spirituali dei malvagi shakespeariani si limitavano a una decina di cadaveri:  perché mancavano di ideologia".
Lecitazioni si potrebbero moltiplicare quasi all'infinito:  la critica dell'ideologia (non di una particolare ideologia o di tutte le ideologie, ma del principio ideologico in quanto tale) è uno dei punti centrali dell'opera di Solzenicyn. Non c'è neppure per un istante l'illusione che possa esistere un'ideologia a favore dell'uomo, che ci possa essere un'ideologia magari buona in partenza e poi rovinata dalla sua applicazione (il miserevole alibi che ogni tanto ancora si rispolvera per cercare di assolvere il comunismo). L'ideologia è malvagia in principio perché è malvagia come principio la pretesa di sostituire la realtà con un'idea, foss'anche questa idea la più bella, la più alta e la più spirituale di questo mondo:  nessuna idea vale un essere umano. Leggere politicamente quest'opera è come non averla letta.
Macinato dai regimi ideologici, privato della sua dignità e della sua libertà nei campi di concentramento, proprio nel regno dei campi, l'uomo descritto da Solzenicyn ritrova la sua libertà, la sua importanza, la sua irriducibilità, non politica, non intellettuale, non legata a particolari virtù morali o eroiche, ma integrale:  "In genere, cercate di capire e di riferire a chi di dovere più in alto, che voi siete forti soltanto nella misura in cui non togliete agli uomini tutto. Ma un uomo a cui avete tolto tutto non è più in vostro potere, è di nuovo libero", dice uno dei personaggi di Solzenicyn; l'uomo al quale sono state tolte tutte le virtù e tutte le ricchezze umane scopre di non essere costituito da nessuno di questi elementi e neppure dallo loro somma più completa ed eminente.
Qui si staglia, su tutte, la figura di Matriona, la vecchia contadina da tutti ritenuta stupida, fin troppo ingenua e con un passato non del tutto immacolato; eppure, quando muore, tutti si accorgono che era "il Giusto senza il quale, come dice il proverbio, non esiste il villaggio. Né la città. Né tutta la terra nostra".
Ciò che rende ultimamente inestimabile e irripetibile ogni singolo essere umano non viene né dalla politica, né dall'ideologia, né dalle sue stesse qualità umane, ma da qualcosa che l'uomo si porta dentro e non si dà da solo; Solzenicyn lo chiama frequentemente l'anima:  è il nucleo dell'io e della sua irriducibilità, ma anche il nucleo del popolo:  "Il Popolo non sono tutti coloro che parlano la nostra lingua, ma non sono neppure gli eletti, coloro che portano il marchio infuocato del genio. Non per la nascita, non per il lavoro delle proprie mani e non per le ali della propria cultura gli uomini vengono selezionati per formare il Popolo. Ma per la loro anima".
L'ideologia totalitaria, che ha cercato di distruggere l'uomo, per fare questo doveva togliergli l'io, e in particolare quella caratteristica insostituibile che costituisce l'io e che è la capacità di giudizio:  i criteri comuni in base ai quali dire che una cosa è quella cosa e non quello che viene in mente all'ideologo o al genio di turno; per annullare l'uomo, l'ideologia doveva insomma togliergli la possibilità di comunicare e di vivere con i suoi simili, rompere la comunione umana.
Non è un caso, in questo senso, come dice Solzenicyn, che il regime sovietico abbia fatto sì che, per la prima volta nella storia, un popolo diventasse "nemico di se stesso":  il figlio denunciava i genitori, la moglie il marito, e viceversa. In queste condizioni ogni solidarietà diventava impossibile e su tutto regnava il sospetto; una società che aveva promesso nuovi rapporti fra gli uomini rendeva di fatto impraticabile ogni relazione naturale, che non fosse mediata dalla interposizione del partito e da quello che il partito riteneva utile per il bene della causa:  non importava quale fosse il modo in cui un uomo guardava un altro essere umano, non era da questo che dipendevano i suoi rapporti, ma dall'utilità sociale determinata dalla linea del partito.
Di fronte a questo, Solzenicyn scopre una nuova solidarietà proprio nei campi, dove su tutto dovrebbe regnare appunto il criterio dell'utile e dello sfruttamento ai fini della sopravvivenza; è la figura di Alëska il battista nella Giornata di Ivan Denisovic:  "Qualunque cosa gli si chiedesse Alëska non diceva mai di no. Se tutti fossero stati così, anche Suchov (Ivan Denisovic) lo sarebbe stato. Se uno chiede aiuto, perché non aiutarlo?".
È una nuova socialità, alternativa a quella del regime, e nella quale in realtà rinasce proprio il vecchio mondo che il regime voleva cancellare; non è un caso che in Solzenicyn questo si traduca e si manifesti anche in un particolare metodo artistico:  quando deve enunciare una verità fondamentale, lo scrittore, che sa quanto sia costata la verità ideologica, la verità inventata dai singoli geni o comunque dai singoli uomini, non parla a nome proprio, ma si affida ai proverbi, alla sapienza del popolo, nata dall'esperienza e verificata in secoli di storia.
In Solzenicyn, spesso considerato uno spiritualista, lontano dalla concretezza della storia o perso nel mito di un passato che non può più tornare, rinasce invece tutto un mondo:  l'io, il popolo, la storia, persino la natura, quella che il regime ha cercato di distruggere con progetti dissennati che hanno portato a disastri ecologici ormai irreparabili. E qui viene spontanea alla memoria la descrizione delle isole Solovki, il primo grande campo di concentramento sovietico, il tumore madre da cui è nata la metastasi concentrazionaria che ha trasformato la Russia in un immenso arcipelago di campi:  distruzione del volto dell'uomo e distruzione del volto della natura:  isole purissime dove sembrava "non esservi peccato. Senza di noi sorsero dal mare, senza di noi si coprirono di duecento laghi pescosi, senza di noi si popolarono di urogalli, lepri, renne, mentre non vi furono mai volpi, lupi o altri predatori (...) Mezzo secolo dopo la battaglia di Kulikovo e mezzo millennio prima della Ghepeu, i monaci Savvatij e German attraversarono il mare di madreperla su una fragile barchetta e ritennero santa l'isola priva di animali rapaci. Con essi ebbe inizio il monastero di Solovki".
Chi oggi visita le Solovki non può che ritrovarvi questa immagine di paradiso; non perché il male sia stato dimenticato:  la descrizione che abbiamo appena letto si trova infatti nel cuore dell'Arcipelago Gulag; ma perché anche in questo caso il male è stato vinto, ancora una volta da quello che ha vinto il male dell'uomo; perché la natura, vista con gli occhi dell'artista, si è rivelata "non fatta da mano d'uomo in questo mondo di cose fatte dall'uomo". È un'espressione, questa, che ricorre molte volte sotto la penna di Solzenicyn e che rimanda a quello che è il vero cuore ultimo di ogni sua riscoperta:  "non fatta da mano d'uomo", nella tradizione ecclesiale di cui Solzenicyn è figlio, è una particolare icona di Cristo.
Fuori da ogni invenzione umana, ciò che fa il valore e la dignità irriducibile dell'uomo, dei popoli, della storia e della natura è il suo rapporto con Dio, con il Dio fatto uomo e resosi visibile agli uomini; come per quel detenuto della Giornata di Ivan Denisovic di cui non sappiamo neppure il nome, ma solo il numero, quasi a volerlo disumanizzare e spersonalizzare ancora più profondamente; eppure "fra tutte le schiene curve egli si distingueva per il suo portamento eretto. Scolpita in pietra dura (...) la sua testa non si chinava nella scodella, come quella di tutti gli altri, ma restava alta". In mezzo a una violenza e un non senso che sembrano dover cancellare ogni valore e ogni punto stabile dell'umana convivenza, questo vecchio "si ostina a rimanere sempre quello di una volta"; e il motivo è evidente, se "i suoi occhi non correvano qua e là per la mensa" era perché anche lui aveva conservato qualcosa di "indistruttibile" e "altissimo" con cui paragonarsi, un punto dove voltarsi a guardare:  i suoi occhi "fissavano qualcosa di invisibile sopra la testa di Suchov".
Qualcosa di invisibile, come l'anima o il suo creatore, ma la cui esistenza, inestinguibile ed efficace, sorprendente, spinge l'uomo, in qualsiasi circostanza, ad andare al di là di ogni circostanza, così da trovarsi alla fine della vita, "migliore di quando vi è entrato".
Nel tempo di un uomo sempre più umiliato e a responsabilità limitata, Solzenicyn non solo riscopriva la dignità e la libertà infinita dell'uomo, ma anche la sua infinita responsabilità di interlocutore di Dio:  non c'è da meravigliarsi della scelta che viene attribuita a von Balthasar.

(©L'Osservatore Romano - 4-5 agosto 2008)


Un solitario chiuso e ostinato
che scriveva secondo onore e coscienza


di Claudio Toscani

"Sono tranquillo, naturalmente, per la certezza che ho di adempiere alla mia missione di scrittore in qualsiasi circostanza, e dalla tomba forse con maggior successo e in maniera ancor più indiscutibile che da vivo. Nessuno può sbarrare la strada alla verità, e purché essa avanzi io sono pronto anche ad accettare la morte".
Queste parole, Aleksandr Isaevic Solzenicyn le aveva gettate in faccia allo spietato potere stalinista mentre in vari "campi" dell'universo concentrazionario sovietico stava scontando gli otto anni di "correzione" forzata inflittagli dalla profilassi sociale della tirannia rossa.
Sopravvissuto a quello che nel suo libro più famoso egli definirà poi Arcipelago Gulag, Solzenicyn estende quel grido al di là della sua vita perché le sue parole, sia pure già scritte nel marmo pario della storia, abbiano un sempre ripristinato ascolto intellettuale e morale, e perché non vada persa la cultura della libertà, soprattutto quella della coscienza.
Nato a Kislovodsk, nel Caucaso, l'11 dicembre 1918, all'indomani dell'avvio della rivoluzione antizarista che avrebbe dato vita all'Urss, Solzenicyn cresce in contesto a una divampante guerra civile. Lui stesso, bambino, in braccio alla madre, e ancora chiamato col diminutivo di Sanja, ricorda di aver assistito, nella sua città, alla confisca di una chiesa e dei suoi beni.
Cresce fra carestia, repressione, indifferenza - "Vivemmo a Rostov per diciannove anni (...) e per quindici non riuscimmo a ottenere una stanza dallo Stato" - ma sotto il profilo culturale e morale è un privilegiato, poiché attorno a lui ci sono deste intelligenze, buona educazione, lingua corretta e finezza di gusti.
Nonostante preferisca materie letterarie, e a un certo punto voglia persino fare l'attore, Aleksandr si laurea in Fisica e Matematica, dovendo scegliere Rostov anziché Mosca come sede dei suoi studi. È il 1941, ma già dal 1936 sta meditando di scrivere il "romanzo della rivoluzione", mentre la rivoluzione reale, ormai ridotta a "terrore", compie i suoi "progressistici" delitti:  Kirov, Zinovev, Bucharin, fra i politici; Kljuev, Pilnjak, Mandel'stam, Babel', fra i letterati (compresa la Cvetaeva che si suicida in seguito all'esecuzione del marito e della deportazione della figlia). Tra il 1942 e il 1943 Solzenicyn è al fronte. Prima di partire, appassionatosi allo studio del materialismo dialettico, vi si dedica in compagnia dell'amico Vitkevic. Quando anche lui è mobilitato in Ucraina, si scrivono. Ingenuamente, ma non senza una intenzionale durezza, criticano Stalin. La censura militare fa il suo dovere:  il 9 febbraio 1945, Aleksandr è arrestato e qualche mese dopo condannato a otto anni di lager. Il cielo, della giovinezza, i germinanti propositi di libertà e di vita rovinano nel baratro della tirannia, sotto una botola che si rialzerà, tra riabilitazione "in campo" e anni di confino, nel 1957.
Ma una seconda vita si è ormai aperta in lui:  quella non meno ardua della dissidenza e della clandestinità intellettuale, verso l'espulsione dalla patria.
"Eravamo alcune decine di solitari chiusi e ostinati sparsi per la Russia, e ciascuno scriveva, secondo quanto gli dettavano l'onore e la coscienza, ciò che sapeva sul nostro tempo, ciò che è la verità essenziale:  non la costituiscono unicamente le prigioni, le fucilazioni, i lager e le deportazioni, benché tacendo di queste non sia possibile scrivere tutta la verità. (...) Giunto il momento saremmo emersi tutti insieme dalle profondità marine (...) e si sarebbe ricostruita così la nostra grande letteratura che avevamo spinto in fondo al mare durante la Grande Svolta".
Se è vero che già nel 1958 pensa ad Arcipelago Gulag, almeno cinque sono i titoli più importanti che la sua bibliografia elenca in sequenza:  Una giornata di Ivan Denisovic (1962), che porta alla ribalta il suo nome in quanto diario di un giorno di vita di un detenuto politico dell'epoca staliniana in un lager del Kazakhstan; La casa di Matriona (1963), racconto sospeso tra favola e parabola, dove la protagonista è simbolo di una giustizia senza la quale non esiste né storia né mondo né uomini; Divisione cancro (1968), romanzo della vera esperienza di un tumore maligno che all'internato Solzenicyn viene tolto nell'ospedale di Taskent, libro che aprirà ufficialmente il suo "caso" ideologico-letterario all'estero; e Il primo cerchio (pure del 1968), la cui dantesca metafora infernale allude al lager stesso, luogo in cui è impossibile, nonostante tutte le evidenze, risolvere il conflitto tra morale e ideologia.
E una parola, infine, per Agosto 1914 (che a partire del 1971 apparirà in più "nodi"), romanzo totale, il "guerra e pace" solzenicyano, tentativo di ricostituire la memoria della nazione rintracciando nella deformazione della storia la verità dei fatti e di tutte le loro generative componenti di pensiero.
Ora, tra il 1973 e il 1976, Arcipelago Gulag vede la luce:  ricordando le fiumane di deportati della recente storia russa, Solzenicyn mette in due migliaia e mezzo di pagine quella sorta di lager universale che è stato il sistema eliminativo di Stalin e affini nella prima metà del secolo scorso. Prigioni di transito, carceri di isolamento politico, campi di lavoro forzato, luoghi di confino e di esilio interno, tra circolo polare artico, steppe del Caspio, Moldavia, Estremo Oriente e miniere d'oro siberiane:  ecco l'"arcipelago" reale e invisibile a un tempo, abitato da milioni di cittadini sovietici:  ecco la verità storica rivelata da un libro che è a sua volta una fiumana narrativa e documentale, un'implacabile j'accuse corale contro teorie e pratiche di terrorismo di massa, grido di dolore lanciato per tutti gli uomini della terra. Espulso nel 1974 dall'Urss, Solzenicyn può ritirare il premio Nobel assegnatogli quattro anni prima. Dopo due anni trascorsi tra Germania e Svizzera ripara in America, nel Vermont, e solo nel 1994 rientra in Russia, ma non ha accettato che poco o nulla, oltre la libertà, s'intende, del sistema occidentale fondato su un altro e non meno pericoloso tipo di dittatura:  quella del capitale e del profitto, della produzione e del consumo.
Tra esilio e ritorno in patria i suoi libri sono, tra altri, La quercia e il vitello (1975), La ruota rossa (1989), Gli invisibili (1992), La questione russa (1995), La verità è amara (1996), Appunti dall'esilio (1998) e un mare d'inediti.
Ma è proprio quando si poteva pensare a lui come a un anziano scrittore che si ritraesse sereno e appagato da una vita colma di dolorose e difficili ma finalmente concluse esperienze che la sua bibliografia registra un'impennata creativa, causa assai più di denigrazioni, polemiche e ostilità, che non di consensi o condivisioni. Infatti, tra il 2001 e il 2003 escono i due volumi di Duecento anni insieme, incandescente requisitoria su un fondante risvolto della società russa, vale a dire la funzione dell'elemento ebraico in seno a essa. Inquadrando il problema tra la Russia del passato e la Russia pseudocapitalista di oggi - tre quarti di secolo di storica anomalia di un impero - Solzenicyn vi inserisce la ventura degli ebrei tra antica identità e moderna integrazione, patria subita e patria prescelta, iniziale condivisione del comunismo - contro la cultura cristiana, per esempio - e susseguente scelta "occidentale".
Così pure, allo scoccare dei suoi ottantacinque anni, Solzenycin pubblica un Diario, tenuto per tre decenni tra il 1960 e il 1990, per adoperarsi, parole sue, "finché Dio mi dà la vita, a ricostruire, a ristabilire la verità della nostra storia, a proteggerla dai giudizi puerili e superficiali". Mentre neanche due anni dopo, nel 2005, fanno seguito gli scritti di denuncia morale composti tra il 1967 e il 2003, sotto i titoli di Schizzi d'esilio, il granello caduto tra le mole e Al ritorno del respiro, dove all'alba del nuovo secolo, e fin troppo memore del buio del secolo scorso, Solzenycin auspica un moderno umanesimo cristiano a salvare la Russia, l'occidente, il mondo intero.
Respirano in tutti questi libri l'anelito alla verità, la lotta alla menzogna, la cristiana aspettazione del destino e del giudizio di Dio. Dal tempo dell'inattesa guarigione dal tumore - "Dio del creato! Io credo di nuovo! Anche quando ti rinnegavo Tu eri con me!" - a più recenti dichiarazioni - "Dobbiano costruire un mondo morale (...) La nuova esplosione di materialismo, stavolta capitalistico, costituisce una minaccia per le religioni" - Solzenicyn non dimentica la fede nel Dio che lo ha salvato dal lager, nel corpo e nell'anima, preservandogli la fiducia nella storia e il convincimento in essa di un disegno superiore, per cui vale la pena di essere nel mondo, senza pur mai consegnarsi a esso.
Se un'attualità perdura nel nome di Solzenicyn, essa è un'attualità spirituale. "L'ideologia vuole governarvi dal di dentro" - scrisse in Divisione Cancro, e lo scrisse per sempre, in pericolo di morte e per il tempo della morte una volta avvenuta.
L'"arcipelago" della sconfitta umana e spirituale è sempre possibile, ma ci sono pur sempre misteriose accensioni di animi che, d'un tratto, si ergono e fanno sentire la propria volontà di resistenza, il loro "no!", la loro speranza nel bene e nel perdono:  la più ricca delle liberazioni, la più invulnerabile delle "armature". Anche fuori del lager. Anche senza il lager.



(©L'Osservatore Romano - 4-5 agosto 2008)

Solzhenitsyn: il volto della Russia del novecento
di Stefano Caprio
L'autore di Arcipelago Gulag è stato un saggio dell'Ottocento che seppe prevedere le contraddizioni del Terzo Millennio. Il suo ritorno dopo l'esilio, nel 1994, segnò la fine della Russia sovietica assai più della glasnost' di Gorbacev. Uomo dalla fede molto poco chiesastica, ha lasciato spazio alla partecipazione di ciascuno al suo stesso cammino di conversione, che parte dalla riscoperta della dignità dell'uomo fino alla sottomissione alla rivelazione cristiana nella sua espressione storica.

Mosca (AsiaNews) - Aleksandr Solzhenitsyn era nato poco dopo la rivoluzione d’ottobre, nel dicembre 1918. I novanta anni della sua esistenza hanno incarnato più di qualunque altra personalità il volto della nazione russo-sovietica del XX secolo: più di Lenin, icona della rivoluzione rimasta imbalsamata fino ad oggi in uno stereotipo con cui non si è mai voluto fare veramente i conti. Più di Stalin, l’uomo con cui egli si confrontò con i suoi straordinari romanzi memoriali, il Male Assoluto che indirizzò la sua scelta morale (“vivere senza menzogna”, il suo grande appello) e che in realtà costruì l’impalcatura dello Stato sovietico anche grazie alla Grande Guerra Patriottica, come in Russia viene chiamata, la cui vittoria permise il consolidarsi per altri cinquanta anni di un comunismo reale ancora oggi assai poco compreso. Più di Sakharov, l’altro grande “dissidente” laico di cui Solzhenitsyn era il contraltare “mistico”. Il più grande scrittore russo del Novecento, più dei suoi connazionali Bunin, Pasternak, Sholokov e Brodskij, premi Nobel come lui.
Il suo spettacolare ritorno in patria dopo l’esilio, nel 1994, segnò la fine della Russia sovietica assai più della glasnost’ di Gorbacev, così come la sua cacciata di vent’anni prima aveva segnato le sorti della Guerra Fredda, denunciando in modo inequivocabile l’impero del male dell’Arcipelago Gulag. Il materiale da lui raccolto in tutto il paese, grazie all’incredibile favore che il satrapo Khruschev gli aveva concesso per essersi commosso alla lettura di Una giornata di Ivan Denisovic, gli permise di costruire la bomba che iniziò la disgregazione del colosso sovietico, rendendolo di fatto equiparabile all’orrore dell’Olocausto nazista. Il comunismo morì allora, in quel tessuto di umanità resistente anche all’estrema degradazione: se neanche il lager può eliminare la persona umana, l’individuo con tutto il suo complesso mondo di speranze deluse e affetti inattesi, allora nessuna ideologia, neanche la più perfetta e collettiva, potrà mai vincere nel mondo. La Thatcher e Reagan, ma anche Solidarnosc e Papa Wojtyla, vennero dopo di lui. Solzhenitsyn non fu semplicemente il campione dell’anti-comunismo, termine da lui detestato (da giovane era stato un comunista fervente), ma dell’anti-ideologia, del primato della persona su ogni forma di potere.
Solzhenitsyn è un maestro antico e moderno, un saggio dell’Ottocento che seppe prevedere le contraddizioni del Terzo Millennio. In questo egli incarna davvero la Grande Russia, questo spazio sconfinato che unisce l’Oriente all’Occidente, incapace di esprimere una propria identità senza porsi perennemente in conflitto con tutto ciò che la circonda. Terra di mezzo, nel tempo e nello spazio, la Russia è la più giovane delle nazioni antiche, e la più conservatrice delle nazioni moderne.
Nell’afflato storico dei suoi romanzi, Solzhenitsyn ha saputo ripresentare il genio di Lev Tolstoj, il più grande romanziere di tutti i tempi, che in Guerra e Pace spiegò il mondo uscito dalla bufera napoleonica: dalla Ruota Rossa, il ciclo dei romanzi sulla rivoluzione, all’Arcipelago e agli ultimi lavori sulla convivenza di russi e ebrei (Duecento anni insieme), Solzhenitsyn è stato l’anima del Novecento, con le sue tragedie e le sue contraddizioni. Anche la sua prosa era modernissima e tradizionalista insieme, nella ricerca delle vere radici della lingua russa; le intuizioni asciutte e fulminanti rievocano le vette spirituali di Dostoevskij, al cui cristianesimo “impossibile” si avvicina la conversione in lager dello stesso Solzhenitsyn.
La religione è un elemento primario del messaggio di Solzhenitsyn, uomo dalla fede molto poco chiesastica e molto ammirata della semplicità del popolo e del rigore della morale, proprio come Tolstoj, e strettamente legata alla turbinosa esperienza della vita di ciascuno, alla maniera di Dostoevskij. La sua figura profetica e solitaria gli permise di evitare scomuniche e connubi, lasciando lo spazio alla partecipazione di ciascuno al suo stesso cammino di conversione, che parte dalla riscoperta della dignità dell’uomo fino alla sottomissione alla rivelazione cristiana nella sua espressione storica. Che per lui, epigono degli slavofili ottocenteschi, era comunque ortodossa e nazionale, senza alcun cedimento alla retorica ecumenica e alla banalizzazione occidentale del cristianesimo, di cui fu critico implacabile e senza compromessi.
Infatti, la fama di Solzhenitsyn è legata essenzialmente alla politica, alla denuncia dei mali dell’Oriente comunista e dell’Occidente capitalista, che alla fine lo hanno entrambi emarginato, come è destino di ogni scomodo profeta. Egli tentò di indicare vie nuove che riscoprissero l’antico: la ricostruzione della Russia sulla base dello zemstvo, del diritto solidale delle comunità locali, è apparsa come una teoria improbabile e romantica, simile alla sobornost dei teologi russi da salotto dell’Ottocento, e allo stesso tempo ha evidenziato la grande necessità di affrontare l’era della globalizzazione senza perdere di vista l’uomo e il suo destino concreto, legato alla terra, alla famiglia e alla cultura, in faccia agli oligarchi spietati e ai funzionari del KGB, suoi nemici storici oggi padroni del paese. A fronte delle illusioni della multiculturalità, il suo ultimo grido disperato ha cercato di rievocare la tumultuosa emigrazione ebrea in Russia, ultima tappa di un esilio millenario prima della ricostruzione dello Stato d’Israele, parabola dello “scontro di civiltà” del tempo in cui viviamo. Come Giovanni Battista nel deserto oltre il Giordano, egli visse tutta la sua esistenza nel freddo dei boschi, prima della Siberia staliniana, poi dell’esilio canadese, infine del quasi oblio della sua amata Russia.
Nessuno come lui ha saputo amare il suo paese, e attraverso di esso il mondo intero, nel secolo breve delle grandi tragedie e delle nefaste ideologie. Sarà difficile dimenticarlo, sarà sempre doloroso riscoprirlo, per accorgersi di essere di nuovo caduti nell’inganno del potere e della menzogna, capace di fagocitare anche chi pensava di opporvisi. Per vivere senza menzogna bisogna saper rinunciare a tutto, come l’uomo del lager, che riscopre il volto di Dio nell’uomo umiliato e nella malattia mortale, ritrovando in questo l’amore alla vita.