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La terrorista che reinventò il monachesimo ortodosso

Elizaveta Pilenko aveva avuto un'infanzia sicuramente felice; nata nel 1891 in una famiglia di origini nobili e con relazioni altolocate, qualche biografo potrebbe immaginarla, bambina, a San Pietroburgo, sulle ginocchia di uno dei frequentatori abituali di casa Pilenko, Konstantin Pobedonoscev, l'onnipotente procuratore generale del Santo Sinodo della Chiesa Ortodossa, conservatore e con una fama pesante di antisemita. Alla luce di questo inizio, molto più difficile sarebbe immaginare la fine che fece qualche decennio dopo quella che nel frattempo era divenuta monaca con il nome di Madre Marija:  morì martire a Ravensbruck dove i nazisti l'avevano gettata per l'aiuto offerto agli ebrei parigini e dove lei, il 31 marzo 1945 (il giorno prima era il venerdì santo) si sarebbe offerta di prendere il posto di un'altra donna selezionata per la camera a gas.
Ma ancor più difficile a questo punto sarebbe immaginare la strada che portò Elizaveta alla santità (Madre Marija è stata infatti canonizzata dalla Chiesa ortodossa nel 2004). Nel 1906 Elizaveta perde il padre, Jurij:  "Mio padre è morto. Nella mia testa pensavo:  nessuno ha bisogno di questa morte. È un'ingiustizia. Se non c'è un Dio giusto, non c'è nessun Dio". La fede è perduta o, comunque, si oscura. Elizaveta comincia ad avere altre frequentazioni, scrive poesie, diventa amica del grande Blok; nel 1910 si sposa, con un giovane avvocato, marxista e alcolizzato, Dmitrij Kuz'min-Karavaev:  nel giro di tre anni divorziano (romanzo nel romanzo:  Dmitrij dopo la rivoluzione cambierà radicalmente vita e diventerà sacerdote cattolico). Poi c'è una relazione con un uomo rimasto sconosciuto dal quale ha una figlia (Gajana, che nel 1936 morirà di tifo); e poi ci sono la guerra e la rivoluzione; Elizaveta si impegna con il partito dei socialisti rivoluzionari, uno dei più decisi, sin dalle sue origini, nella teorizzazione e nella pratica del terrorismo come metodo "normale" di lotta politica. Lei non lancia certo bombe, ma è come rappresentante di questo partito che diventa sindaco di Anapa:  ed è così la prima donna nella storia russa a svolgere un simile ruolo. Poi viene l'arresto, da parte dei bianchi che l'accusano di aver collaborato coi bolscevichi, e c'è un secondo matrimonio, con Daniil Skobcov, un membro del tribunale che doveva giudicarla, dal quale avrà due figli, Jurij e Anastasija. Alla fine i bolscevichi vincono ed Elizaveta, con la sua famiglia è costretta all'emigrazione; dopo questi anni di avventure e di azzardi saranno altri anni di stenti e di sofferenze, ma anche di una nuova scoperta.
Nel 1926, a Parigi, a soli quattro anni, Anastasija muore di meningite; per la madre è un dolore tremendo:  ha perso tutto, la ricchezza dell'infanzia, i sogni della rivoluzione, la patria, una figlia amatissima, nell'emigrazione le resta una libertà che sembra essere una strana e crudele presa in giro, fatta del puro vuoto. Ma qui, come per tanti altri russi che l'accompagnano a Parigi e che diverranno suoi amici (Berdjaev e Bulgakov su tutti), scatta inattesa un'intuizione:  "A cosa ci impegna il dono della libertà che ci siamo trovati addosso? Noi siamo fuori dalla portata dei persecutori. E siamo stati liberati anche dalle tradizioni secolari. Siamo fuori da ogni consuetudine. Che sarà mai, un caso? Nel campo della vita spirituale non c'è posto per il caso, né ci sono epoche più o meno fortunate, ci sono invece dei segni che bisogna capire e delle vie che bisogna seguire. E noi siamo chiamati a grandi cose, perché siamo chiamati alla libertà".
Quello che era successo non era un accidente privo di senso e neppure più un male senza redenzione, ma la sfida della libertà, perché dal sacrificio di quanto v'era di più caro nascesse una vita nuova:  privata della maternità naturale, coinvolta in qualcosa che è più che dolore, Elizaveta capisce di essere chiamata a diventare "madre di tutti"; è l'inizio di una nuova vita, con la vocazione a una donazione totale che si svilupperà nelle modalità più diverse.
Innanzitutto è una passione senza limiti per l'umanità, che la porta a cercare nuovi figli là dove la sofferenza è più estrema e disperata, tra i diseredati e gli emarginati:  disoccupati, malati, folli diventano la sua famiglia. È la vittoria che nasce dalle più tremende sconfitte, quando "l'uomo è posto di fronte a una scelta inevitabile:  il tepore della sua dimora terrena, o lo spazio sconfinato dell'eternità, nel quale esiste un solo punto solido e certo, e questo punto solido e certo è la croce".
Questo cammino in compagnia della croce, sospeso alla croce, ha un primo punto fermo nel 1932, quando Elizaveta, ottenuto il divorzio religioso, prende i voti, con il nome monastico di Marija, in onore di santa Maria Egiziaca.
Il passato turbolento è ormai alle spalle, ma il cuore è quello che è, e Marija resta una "monaca un poco selvaggia", che fuma in pubblico e gira all'alba per i mercati generali in cerca di qualcosa per i suoi poveri; la disciplina tradizionale, in un eremo isolato o in un comune monastero, le starebbe stretta:  "Tagliarsi fuori dal mondo in nome dell'ascetismo è una forma raffinata di egoismo". E poi le condizioni in cui si trova l'emigrazione russa in Europa occidentale sono davvero nuove; e qui, ancora una volta, scatta l'intuizione della fede:  "Bisogna camminare sulle acque. San Pietro lo fece e non annegò. Naturalmente tenersi a riva è più sicuro, ma si può anche non arrivare mai a destinazione".
La nuova strada che viene inventata per "camminare sulle acque" è il monachesimo nel mondo; il monaco, amando Dio sopra ogni cosa, non rinuncia al mondo ma lo offre al suo creatore stando dentro al mondo stesso:  non c'è più nessuna rinuncia, ma non c'è neppure una confusione con il mondo, la riduzione della Chiesa a un'istituzione benefica:  "Bisogna che ogni nostra iniziativa diventi l'opera comune di tutti quelli che ne fruiscono e non sia invece un'opera benefica come tante, dove alcuni fanno del bene e presentano il resoconto e altri ricevono la beneficenza per lasciare il posto ad altri". Al di là di vecchi divieti e di nuovi sogni rivoluzionari, si tratta di un'intuizione creativa nella quale l'uomo torna a stringere tra Dio e il mondo "un legame che nulla potrà rompere". L'attività caritativa di Madre Marija la porta ad aprire ospizi, sanatori e convitti, il più famoso dei quali è quello di rue de Lourmel, 77:  "è uno strano pandemonio:  ci sono ragazze, pazzi, sfrattati, disoccupati e adesso due cori, quello dell'Opera russa e uno gregoriano, un centro missionario e funzioni in cappella a mattina e sera". Quello che a molti appare un caos, per Madre Marija è il compiersi della vocazione cristiana:  "All'inizio nulla è trasfigurato. Alla fine non c'è nulla che non possa essere trasfigurato".
Il 27 settembre 1935, la storia di Madre Marija trova un altro punto fermo:  per meglio corrispondere a questa vocazione viene fondata l'Azione Ortodossa:  il nome è suggerito da Berdjaev, l'approvazione ecclesiastica viene dal metropolita Evlogij, una delle massime autorità della comunità russa emigrata, tra i fondatori ci sono i nomi più luminosi della cultura religiosa russa all'estero. Viene offerto un aiuto materiale a chiunque ne abbia bisogno (dal piatto di minestra per l'ultimo dei vagabondi, al lavoro o alla casa per chi non riesce a far fronte alle difficoltà economiche che, anche nella Parigi degli anni Trenta, per primi colpiscono gli immigrati); ma non ci si limita a questo, vengono organizzate conferenze per tener viva la memoria della propria tradizione e rendere sempre più cosciente il compito del cristiano di trasfigurare tutto il mondo. Madre Marija non si risparmia di fronte a nulla:  "Il mondo crede che se si dà il proprio amore si resta depauperati di ciò che si è dato. È vero il contrario:  tutta la ricchezza spirituale donata agli altri non solo ritorna al donatore, ma cresce e si rinvigorisce".
Più risponde alla provocazione della realtà per riportarla a Cristo e più Madre Marija diventa sensibile ai bisogni del mondo. E tanto più diventa sensibile a questi bisogni, tanto più chi la incontra ne viene conquistato, ne accetta i consigli o la segue, come accade quando si reca in visita a un gruppo di minatori dei Pirenei e, inizialmente, viene accolta con ostilità da chi sospetta che abbia l'intenzione di fare un "pio sermone" e l'invita piuttosto a dare una pulita alla baracca in cui vivono; lei non si scompone e sostituisce la progettata conferenza con un umile lavaggio dei pavimenti (dopo di che i minatori l'ascolteranno con una disponibilità ben diversa, e uno di loro dirà che solo le sue parole l'avevano distolto da un suicidio a lungo meditato).
La stessa dinamica si ripete quando i nazisti arrivano a Parigi e iniziano le persecuzioni razziali. Madre Marija e i suoi amici non possono accettare un mondo dove "l'umanità intorpidita esulta per miseri successi e si amareggia per piccoli insuccessi, rinnega la propria elezione e si tira con zelo e precisione il coperchio della tomba sulla testa"; nessuno di loro può restare insensibile di fronte alla nuova situazione e per l'Azione Ortodossa" è del tutto naturale contrapporre alle nuove divisioni "il mistero dell'autentica comunione umana, che si radica nella comunione della Trinità", e così si cerca di soccorrere in ogni modo gli ebrei, fornendo loro rifugi, documenti contraffatti, soprattutto certificati di battesimo falsi. La repressione non tarda ad arrivare:  con Madre Marija verranno arrestati, tra gli altri, suo figlio Jurij e l'assistente spirituale padre Dimitrij Klepinin. Tutti moriranno in campo di concentramento rivivendo nella propria morte l'amore di Cristo:  "per amore verso la creazione Dio ha destinato il proprio Figlio alla morte sulla croce, non perché non potesse redimerci in altro modo, ma per insegnarci con ciò la ricchezza del suo amore", aveva detto Madre Marija e, pur conoscendo perfettamente i rischi di quello che stava facendo, aveva intrapreso gli ultimi passi della sua esistenza proprio per questo amore e con questo amore per Cristo. Come aveva scritto dopo la morte della figlia Gajana:  "No, morte, non te amavo / Ma quanto è di più vivo al mondo:  l'eternità / E quanto v'è di più mortale al mondo:  vivere".
di Adriano Dell'Asta
(©L'Osservatore Romano - 1-2 settembre 2008)