Gerusalemme Come Giona a Ninive. Carlo Maria Martini da Milano a Gerusalemme - L'Osservatore Romano

martini ccm(Marco Garzonio) Il cammino cristiano Anticipiamo uno stralcio del libro di Marco Garzonio Ritorno a Gerusalemme - Il cammino del cristiano in Terra Santa con Carlo Maria Martini (Milano, Edizioni Terra Santa, 2018, pagine 96, euro 16).
Provo a spiegare perché mi sono deciso a scrivere questa piccola guida, quando ce ne sono tante, accreditate, documentate, molte arricchite anche da una grande quantità di commenti autorevoli e di illustrazioni suggestive di luoghi, monumenti, testimonianze. Inoltre, perché sottolineare che si prende la via di Israele con una specifica caratterizzazione: compiere un cammino in Terra santa con Carlo Maria Martini, sulle sue orme.
Dico subito che il mio vuole essere un lavoro calato profondamente nell’attualità, una verifica di quanto la memoria sia viva, un tentativo di evidenziare come un pellegrinaggio non sia una parentesi nel corso di un’esistenza in cui si è presi dalle tante preoccupazioni quotidiane e ci si dimentica di ciò che abbiamo di più prezioso: noi stessi. L’obiettivo che mi sono proposto è pensare a una integrazione di elementi diversi. Anche da questo punto di vista si può rintracciare una delle ragioni che mi hanno indotto a ispirare questa fatica al cardinale. Alla base ci sono esperienze fatte in prima persona, sia per quanto riguarda i viaggi sia per ciò che attiene la vicinanza all’uomo Martini, alla sua pastorale e al suo pensiero.
In Terra santa ho avuto l’opportunità di recarmi numerose volte: una dozzina, forse più; ho perso il conto. In due di queste ci sono andato con il cardinale e in entrambe ho ricevuto un grande, autentico, indimenticabile dono. La prima volta fu nel febbraio del 1992. Potei misurare dal vivo quanto il cristianesimo e le vicende della vita sociale siano profondamente intrecciate, con gli eventi collettivi che interrogano la scelta di stare col Vangelo senza vergognarsi, la incalzano in maniera esigente, pressante. Nel bel mezzo del pellegrinaggio affollato da 1500 milanesi che accompagnavano il loro arcivescovo per celebrare l’anniversario del primo pellegrinaggio moderno organizzato dal suo predecessore, il cardinale Ferrari, nel 1902 (inviato speciale e cronista dell’epoca fu Angelo Roncalli, per «L’Eco di Bergamo») sui partecipanti rimbalzò da Milano la notizia che era scoppiata Tangentopoli. Lo scandalo, che avrebbe cambiato il corso dell’Italia moderna, da Nazaret ebbe i primi commenti dell’arcivescovo, a caldo. Sin da quei giorni in Terra santa prese forma la linea che il cardinale stava imprimendo alla Chiesa ambrosiana: «Che da queste esperienze nascano volontà di pulizia e onestà, perché il passato diventi uno stimolo di riscossa per il futuro». Il mistero di morte e risurrezione che si respira a Gerusalemme e nei luoghi santi permea stile e visione del cardinale anche nell’affrontare le vicende politiche: è una costante, un filo rosso di senso saldo e illuminante, che rassicura e incoraggia; un autentico punto di riferimento per la città intera. Con Martini, Milano ha imparato che si può cadere e rialzarsi, sbagliare e riparare, sostituire l’uomo nuovo, rigenerato e rinato, all’uomo vecchio che ha peccato. Dio ama il suo popolo — espressione ricorrente nel lessico martiniano — proprio perché l’uomo sbaglia, ma poi si riprende, ovviamente se vuole, e si impegna nel rinnovamento.
La seconda opportunità si materializzò nel 1999. Per quanto Martini avesse nemici in Vaticano e nella Cei, a Giovanni Paolo II piacque l’idea che il cardinale facesse da apripista al viaggio che lui, il Papa, avrebbe compiuto in Terra santa l’anno successivo, nel 2000, al culmine delle celebrazioni della Chiesa per il Millennio In quella occasione, Martini fece da “ambasciatore” del Pontefice a Damasco, ad Amman, a Gerusalemme; fu guida solida, discreta, sapiente, anche affettuosa e condivise con i compagni di viaggio incontri memorabili. Difficile dimenticare le ore passate con padre Paolo Dall’Oglio (il gesuita fondatore della Comunità di Mar Musa, instancabile promotore del dialogo interreligioso: forse anche a causa di tanta fede e determinazione, di lui, com’è noto, non si hanno più notizie dal 2013); con l’imam Bashir Al-Bani che, nella capitale siriana, accolse l’arcivescovo sulla porta della grande Moschea Omayyade e lui, piccolo di statura di fronte alla figura imponente del cardinale, non ebbe esitazione a prenderlo per mano e a condurlo alla tomba che la tradizione vuole contenga la testa di Giovanni il Battista: si intrattennero insieme in una lunga preghiera silenziosa; con il rabbino capo di Israele David Rosen, davanti al quale Martini ricordò che i fedeli dell’islam «vollero venerare Gerusalemme costruendovi la Cupola della Roccia (Qubbat as-Sakhra) e la Moschea al-Aqsa e che pure svilupparono in questa terra tradizioni religiose e civili degne di rispetto».
Difficile dimenticare anche la richiesta pubblica che Martini a Gerusalemme rivolse agli esponenti delle tre grandi religioni del libro «di unirsi nella condanna di ogni fanatismo e intolleranza religiosa, di ogni “guerra santa” che genera solo violenza e morte. Nessuna guerra è santa». Allo stesso modo, commozione generale suscitò l’appello del cardinale a tutti «credenti e non credenti di coniugare la dimensione profetica e l’impegno civile, per promuovere i diritti della persona umana, la dignità femminile». Nella lectio che in quel viaggio Martini tenne sul Monte Nebo, là dove, dice la Bibbia, Mosè poté vedere la Terra promessa senza però poter mettervi piede, è racchiusa la cifra di un passaggio significativo. Credo che aiuti a entrare più direttamente nella vicenda umana, personale del cardinale, e contemporaneamente a gettare fasci di luce sull’idea di intraprendere un viaggio in Terra santa sulle orme di Martini.
Nel marzo di quel 1999, mentre sperava in Karol Wojtyła, al quale aveva chiesto di lasciare con anticipo Milano per ritirarsi a Gerusalemme e tornare agli studi biblici (ma il Papa fu di parere diverso, com’è noto, e lo invitò a rimanere sino alla scadenza naturale dei settantacinque anni, nel 2002) parlò del «destino drammatico di Mosè», che su quella montagna brulla aveva concluso «la sua carriera nella solitudine», «servo inutile e obbediente». Nello scenario unico di natura, fede, conflitti, speranze che è il Monte Nebo, al di là del Giordano, dal quale nei pochi giorni tersi si può intravedere Gerusalemme, Martini invitò i fedeli accorsi a migliaia a riflettere su quelle «che nella storia sono le grandi rotture di epoca e insieme le grandi continuità». Anche raggiungere fisicamente la Terra promessa non significa «saziare la nostra attesa». Si rimane sempre, come rimase il popolo intorno a Mosè, «nell’anticamera del desiderio».
A mano a mano che passano gli anni, si dilatano le prospettive storiche ed emergono con crescente marcata evidenza le intuizioni e le prospettive profetiche di Martini. Oggi siamo chiamati a leggerlo, a studiarlo in modo approfondito, a interrogarci sulla portata del suo magistero: che cosa ha lasciato, quali tracce indelebili è riuscito a imprimere sui modi di vedere Dio, l’uomo, la Chiesa, il governo della cosa pubblica, la salvaguardia del Creato. Riconoscenza e onestà intellettuale esigono un esercizio di “discernimento” (parola carissima al cardinale, come oggi lo è a papa Francesco) nel valutare quanto la sua eredità è riportabile alle vicende di oggi, su quali contenuti ha prodotto effetti che hanno cambiato il modo di pensare e di agire anche nella Chiesa. Una valutazione che la distanza storica aiuterà a rendere obiettiva. Perché lo sappiamo che Martini divide ancora. Esistono a tutt’oggi suoi detrattori. Per cui occorrerà essere vigili e attenti, sfuggire a una ecolalia acritica, a nostalgie antistoriche, cercando di mettersi al riparo da forzature improprie dettate magari da un coinvolgimento di tipo affettivo.
Per la mia parte, ad esempio, mi sono proposto di capire la portata della richiesta fatta dal cardinale, che sulla tomba fosse inciso il versetto del Salmo 119, «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul tuo cammino». Lui che per una vita aveva sognato di essere sepolto a Gerusalemme, e che con la Città santa aveva un rapporto così profondo e particolare («Io sono nato qui», confessò un giorno di essersi detto, tanto intensamente viveva l’identificazione con i luoghi santi) s’è spogliato anche di un desiderio dell’Io peraltro così naturale, proprio come accade nei più intensi cammini spirituali. Avvicinandosi la fine, ha deciso che le sue spoglie fossero accolte in duomo, a Milano, sotto l’altare della Croce di San Carlo. Quella Croce, lui l’aveva portata in processione per le vie della città il Venerdì santo del 1984, anno centenario del suo predecessore illustre. A san Carlo, che s’era speso contro la peste come malattia fisica ed epidemia, aveva chiesto di proteggere la città da tre pesti moderne: la violenza (a cominciare dal terrorismo), la corruzione, le solitudini. Martini amò molto Milano.
Il giorno del suo ingresso, il 10 febbraio 1980, disse alla folla: «Mi sento a casa». E non perse mai occasione per dimostrare vicinanza alla città, alla sua gente, ai problemi piccoli e grandi che affliggevano la convivenza, dal centro alle periferie.
Ma nel 1991, un anno prima di Tangentopoli, paragonò la città a Ninive, la capitale assira nella Scrittura simbolo di corruzione. Scrisse una lettera ai sacerdoti delle comunità ecclesiali della diocesi dal titolo Alzati va’ a Ninive la grande città. Giona era il destinatario dell’invito divino echeggiato nell’esortazione martiniana. Il profeta riluttante, che si fa lui stesso lampada. Non è azzardato leggere un’identificazione del cardinale con il profeta riluttante, con il destino di questi chiamato a riportare la luce di Dio là dove gli uomini sembravano aver perso il senso morale dello stare insieme. Per molti, quell’accostamento fu un pugno nello stomaco. Martini aveva ormai abituato la città al linguaggio dei simboli e delle immagini bibliche, che mostravano un potere evocativo di gran lunga più efficace di tanti discorsi e omelie.
«Il libro biblico di Giona descrive la fiducia di Dio e la fatica del profeta a comprendere l’amore di Dio», spiegò il cardinale di fronte allo choc diffuso tra i benpensanti preoccupati dalla equiparazione Ninive/Milano.
L'Osservatore Romano, 11-12 ottobre 2018