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L'amore più grande - Commento di mons. Pierbattista Pizzaballa

cristo vite fill 146x197Fonte: Il sismografo
"In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore. Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.
Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici. Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando. Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre mio l’ho fatto conoscere a voi.
Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: che vi amiate gli uni gli altri»." Parola del Signore


Commento di mons. Pierbattista Pizzaballa

Continua oggi la lettura del capitolo XV del Vangelo di Giovanni, che abbiamo iniziato domenica scorsa.

Gesù descrive la relazione che intercorre tra Lui e i discepoli come una relazione di amore: il termine amore, in questi pochi versetti, ricorre nove volte.
Accanto al termine amore ne troviamo un altro, ugualmente importante, che Gesù applica ai suoi, ed è il termine “amici”: per dire chi sono i discepoli per Gesù, come Lui li “sente”, Lui usa questo termine: li chiama “amici” (Gv 15,15).
Cosa significa per Gesù amare, cosa significa essere amici?
Innanzitutto per Gesù amare significa rimanere gli uni negli altri. Amarsi non è un incontrarsi saltuariamente, non è neppure essere presenti gli uni gli altri rimanendo esterni, estranei, ognuno con la propria vita. Amarsi per Gesù ha questa intensità, questo spessore, per cui l’altro ti entra dentro e fa parte di te: non sempre la relazione è facile, e spesso ci si scontra, non ci si capisce, ci si delude. Ma l’altro rimane parte della tua vita, per cui non ne puoi più fare a meno, non lo puoi più abbandonare. Ed è reciproco.
Questa è la relazione tra Gesù e il Padre, il loro essere una cosa sola, il loro avere tutto in comune: per questo Gesù può dire di amare il Padre e di osservare i suoi comandamenti (Gv 15,10).
Ma questo è anche ciò che Gesù ha vissuto con noi, ci ha amati così, non potendo fare a meno di noi, perché gli siamo entrati dentro e non vive più senza di noi. Gesù chiede ai suoi di rimanere in questo amore, cioè innanzitutto di lasciarci amare così.
Per noi l’esperienza del rimanere risulta alquanto problematica: nella nostra fragilità umana, ciò di cui facciamo esperienza più spesso è il perderci, il dimenticarci chi siamo, dove andiamo, con chi. Spesso siamo i primi a fuggire dalla vita, da noi stessi, dagli altri.
La storia della salvezza, così come la nostra storia personale, racconta tanti di questi episodi.
Ma il rimanere di cui parla Gesù oggi non esclude tutto questo, anzi: non è un caso che i discorsi di addio, di cui questo capitolo fa parte, sono messi dall’evangelista Giovanni prima della Passione di Gesù, momento in cui quasi nessuno dei discepoli rimarrà, ma ciascuno si perderà. Per Gesù amare significa offrire all’altro una dimora così sicura, così aperta e accogliente, per cui l’altro può sempre ritornare e sentirsi a casa, come se non fosse mai andato via.
Rimanere non appartiene alla sfera delle capacità umane, ma all’orizzonte della misericordia di Dio, che ci ha talmente fatti suoi, ci ha talmente chiamati amici da offrirci un luogo dove rimanere anche nelle nostre fughe, mancanze, inadempienze, peccati: per quanto andiamo lontani, non usciamo mai da questo abbraccio, da questa dimora.
Si tratta, allora, di rimanere innanzitutto lì dove riconosciamo la nostra colpa e non tentiamo maldestramente di esserne indenni: non sarà il nostro peccato ad impedirci di rimanere, ma la nostra presunzione di non essere peccatori. Rimanere significa abitare nella misericordia del Signore, lì dove la grazia basta.
Tutto questo è la vera, grande gioia possibile per l’uomo: “Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena” (Gv 15,11).
Ci può essere la tentazione di pensare che un amore così, che chiede un’accoglienza totale e un dono di sé fino alla fine, sia un ostacolo alla vera gioia; e nel nostro immaginario moderno, il termine rimanere ha più una sfumatura di costrizione, che di libertà.
Per Gesù non è così: Lui per primo conosce una “sua gioia” (Gv 15,11) che è quella di aver osservato i comandamenti del Padre Suo, cioè di essere rimasto unito a Lui in un’unica volontà, un’unica vita. Lì ha ricevuto tutto.
E vuole che questo suo stile di gioia sia anche dei suoi discepoli, lì dove loro imparano ad amarsi gli uni gli altri, ad essere gli uni per gli altri quella dimora buona capace di accogliersi nelle proprie diversità e fatiche, capaci di perdonarsi.
Capaci di vivere quel rimanere gli uni negli altri che dice una relazione più forte di quella dei legami del sangue, una relazione per cui l’altro mi appartiene e, quindi, mi interessa e non posso non averne cura, fino a dare la mia vita per gli altri: questo significa essere amici (Gv 15,13) nello stile del Signore.

+Pierbattista