Le religioni devono dare un messaggio di pace
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- Creato: 11 Settembre 2012
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Qual è il significato di questa visita?
È stata una visita molto importante per dare un messaggio positivo a questo Paese. Ci unisce il Vangelo e il fatto che noi cristiani a Sarajevo siamo una minoranza. Il Patriarca è venuto per sostenere la Chiesa cattolica e io sono stato presente insieme agli altri cardinali nella chiesa ortodossa quando lui ha celebrato la liturgia, per dare un segno di vicinanza. Ha lanciato un appello: che mai sparisca, per le giovani generazioni, la presenza dei cristiani. Io vedo un bel messaggio per il futuro: bisogna cambiare l'opinione pubblica e i cristiani devono testimoniare l'unità. E per questo il gesto che ha fatto il patriarca Irinej ha un'importanza fondamentale.
La scelta di Sarajevo come sede del meeting interreligioso di Sant'Egidio è molto significativa, a vent'anni dall'inizio della guerra. È solo un simbolo o lei si aspetta qualche risultato concreto?
Il dialogo comincia con la preghiera. Questo è il primo passo per la pace: una comunità che prega per la pace. Ma poi c'è un secondo passo che è essere insieme. Quando ci incontriamo, quando siamo insieme è già un messaggio: tutti i rappresentanti delle religioni sono per la pace. Questo è un messaggio rivolto innanzitutto ai politici: bisogna cambiare le regole del gioco e le religioni possono contribuire, affermando i principi che possono costituire il fondamento morale dello Stato. Questi incontri servono per dare unità agli uomini di religione e aiutarli a dare un fondamento spirituale al vivere comune della gente. Creano speranza. Cambiano i cuori. Aprono la mente a quello che sembra impossibile.
Credenti di religione diversa e uomini e donne di cultura che si incontrano e dialogano. Ma alla radice di tutto una grande preghiera per la pace. Un'intuizione di Giovanni Paolo ii, rinnovata da Benedetto XVI. Papa Wojtyla aveva un rapporto di particolare vicinanza a questa terra e a lei personalmente. Voleva venire a Sarajevo durante la guerra. Nel 1994, nel pieno dello scontro, decise di crearla cardinale a soli 49 anni. Ha un ricordo particolare di questo legame?
Noi cattolici siamo molto grati al beato Giovanni Paolo II, perché era come un grande padre per noi: ha pregato, ha parlato con voce forte per la pace, ha fatto visita come pellegrino a questa terra. Quando è stato presente ha parlato in modo molto chiaro, come pastore, con tutti: con i cattolici, con i politici, con gli altri capi religiosi. Mi regalò un telefono speciale per essere in contatto. Per lui era un dolore e un amore speciali. E questo non lo possiamo dimenticare: questi segni che Papa Wojtyla ha lasciato a Sarajevo rimangono per me una strada per lavorare per la pace. Comunque lui era sempre molto vicino, perché conosceva la nostra situazione e voleva fare qualche cosa di concreto per la pace: non solo per i cattolici, ma per tutti. Ed era irritato perché riteneva che la comunità internazionale facesse poco per la pace nel nostro Paese.
Sono passati vent'anni dall'inizio della guerra. Il conflitto è durato quasi quattro anni: ne sono bastati sedici per rimarginare le ferite?
Grazie a Dio, dopo l'accordo di Dayton sono state rinnovate tante cose, come le case e le strade. Ma non è facile creare una pace stabile, perché l'accordo di Dayton fa tacere le armi ma non ricrea la fiducia, lascia le divisioni. Non crea condizioni giuste: Dayton divide la Bosnia ed Erzegovina in due parti e questo è un grande problema, soprattutto perché dopo questo accordo la comunità internazionale si è dimenticata di questo processo, si è lavata le mani, lasciando tutto in mano a politici locali. Il problema oggi è che le diverse comunità non hanno la possibilità di far valere allo stesso modo la loro voce e bisognerebbe fare pressione per creare uno Stato normale, in cui possiamo essere tutti uguali.
È un problema politico: le religioni possono avere un ruolo?
L'idea intelligente della Comunità di Sant'Egidio è proprio quella di riunire capi religiosi, non solo locali, ma anche internazionali, per lavorare sull'opinione pubblica e fare pressione sulla politica locale e internazionale. Mentre crea un clima favorevole, con una visione culturale più libera.
In un recente libro-intervista lei ha dichiarato che per sopravvivere alla guerra servono tre cose: la preghiera, la forza di volontà e la capacità di scherzare. Ricorda un episodio in cui emerge la fede, la tenacia e l'ironia degli abitanti di Sarajevo?
Non posso dimenticare un'immagine di quando eravamo nel pieno della guerra: una notte durante la quale ogni secondo cadeva una granata. Alla fine, sentivo di aver raggiunto i limiti di resistenza della mia mente: avevo paura e mi sembrava di impazzire. Subito, ho cominciato con i miei familiari che stavano in casa con me a pregare, e questa preghiera ha custodito il mio cuore e la mia anima. Da allora, anche quando, come pastore, ho fatto riunioni con i miei sacerdoti, durante gli attacchi più violenti continuavamo a parlare e a farci degli scherzi. Questo è molto importante quando hai una grande tensione: la tensione è pericolosa, mentre rilassarsi e ridere è un modo di sopravvivere in queste situazioni.
Vent'anni dopo la guerra, come può Sarajevo essere il futuro e non il passato d'Europa?
Oggi la convivenza di un tempo non c'è più, ma questo non dipende dal popolo, dipende dalla politica. Sta a noi di cambiare questa situazione e costruire, come dice il beato Giovanni Paolo ii, una città che sia un segno per tutta l'Europa. Non più un simbolo della divisione e della violenza, ma un paradigma di unità ed equità. Io penso che è possibile e bello lavorare e vivere per questo.
(©L'Osservatore Romano 12 settembre 2012)