Non bisogna rassegnarsi

papa-francesco-parolin«Non dobbiamo dimenticare, non dobbiamo rassegnarci». È questo l’appello lanciato dal segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, di fronte alle tragiche notizie che continuano a pervenire dalle aree di conflitto nel Medio oriente, e in particolare dalle zone colpite dall’offensiva del cosiddetto Stato islamico, con centinaia di migliaia di persone perseguitate a causa della loro fede. In un’intervista all’Osservatore Romano, il cardinale Parolin ribadisce l’impegno della Santa Sede a favore delle popolazioni della regione e ricorda come, per discutere della delicata situazione, Papa Francesco abbia indetto un concistoro il prossimo 20 ottobre, a poco più di due settimane dall’incontro dei nunzi apostolici nel Medio oriente convocato in Vaticano.

Eminenza, perché un incontro dei rappresentanti pontifici del Medio oriente in Vaticano?
Il Santo Padre ha deciso di convocare i nunzi apostolici in Medio oriente per dedicare una riflessione sulla drammatica situazione che da tempo si vive nella regione e per manifestare la vicinanza e la solidarietà, da parte sua e di tutta la Chiesa, verso le persone che soffrono le conseguenze dei conflitti in atto. Particolare attenzione è stata dedicata ai cristiani e agli altri gruppi che sono perseguitati a causa del loro credo religioso, specialmente in alcune zone dell’Iraq e della Siria, da parte del cosiddetto Stato islamico. All’incontro hanno partecipato pure i capi dei dicasteri della Curia romana che hanno responsabilità dirette verso la Chiesa cattolica in Medio oriente. La presenza degli osservatori permanenti della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York e a Ginevra e del nunzio apostolico presso l’Unione europea ha voluto sottolineare la dimensione e le conseguenze internazionali di questo dramma. Questi rappresentanti del Papa danno voce in ambiti multilaterali alla posizione della Santa Sede su diverse questioni e intrattengono continui contatti con i rappresentanti diplomatici di numerosi Paesi. Così è stato possibile un ricco scambio di informazioni e una valutazione della situazione partendo dall’esp erienza diretta sul terreno per valuta re cosa può fare la Chiesa e cosa può essere richiesto alla comunità internazionale e venire incontro alla triste situazione attuale. Un’ulteriore conferma di quanto tutto questo stia a cuore al Santo Padre viene dalla sua volontà di dedicare il concistoro del prossimo 20 ottobre al Medio oriente.

Sulla base delle informazioni dei Nunzi cosa può dire delle comunità cristiane e degli altri gruppi che soffrono per la violenza nella regione?
Abbiamo ascoltato con commozione e con grande preoccupazione la testimonianza delle atrocità inaudite perpetrate da più parti, ma soprattutto dai fondamentalisti del gruppo denominatosi Stato islamico: le decapitazioni, la vendita di donne al mercato, l’arruolamento di bambini in combattimenti sanguinosi, la distruzione dei luoghi di culto. Ciò ha costretto centinaia di migliaia di persone a fuggire dalle proprie case e cercare rifugio altrove in condizioni di precarietà. Sono persone umiliate nella loro dignità e sottoposte a sofferenze fisiche e morali. Al riguardo, i rappresentanti pontifici e i superiori dei dicasteri presenti all’i n c o n t ro hanno riaffermato il diritto dei profughi di fare ritorno e di vivere in dignità e sicurezza nel proprio Paese e nel proprio ambiente. Si tratta di un diritto che deve essere sostenuto e garantito tanto dalla comunità internazionale quanto dagli Stati di cui essi sono cittadini.

Cosa può fare la comunità internazionale?
La situazione è veramente complessa. Alla radice dello sradicamento forzato di milioni di persone nel Medio oriente sta una conflittualità violenta e disumana che vede coinvolti apertamente o nella penombra gruppi di mercenari, gruppi non statali, potenze regionali e globali. La scelta della lotta armata, invece del dialogo e del negoziato, moltiplica la sofferenza di tutte le popolazioni coinvolte. La via della violenza porta solo alla distruzione; la via della pace porta alla speranza e al progresso. A più riprese e con iniziative assunte in primo luogo dal Santo Padre — come il suo pellegrinaggio in Terra Santa, la preghiera in Vaticano con i Presidenti israeliano e palestinese, e i suoi messaggi al mondo intero — la Santa Sede ha ribadito la convinzione provata dall’esperienza che con la guerra tutto è perduto e con la pace tutto è guadagnato. Il primo passo urgente per il bene della popolazione della Siria, dell’Iraq, e di tutto il Medio oriente è quello di deporre le armi e di dialogare. La distruzione di città e villaggi, l’uccisione di civili innocenti, di donne e bambini, di giovani reclutati o forzati a combattere, la separazione di famiglie, ci dicono che è un obbligo morale per tutti tutti dire basta a tanta sofferenza e ingiustizia e cominciare un nuovo cammino in cui tutti partecipino con uguali diritti e doveri come cittadini impegnati nella costruzione del bene comune, nel rispetto delle differenze e dei talenti di ciascuno.

Più volte Papa Francesco ha denunciato come il traffico delle armi sia alla base di tutte le guerre.
È vero, tristemente. Speculare e guadagnare sulla vita degli altri suscita serie questioni etiche. In un momento di particolare gravità, dato il numero crescente di vittime causate dai conflitti esplosi in Medio oriente, la comunità internazionale deve affrontare la questione. Più le armi diventano disponibili, più facile diviene la tentazione di usarle. Per quanto riguarda il cosiddetto Stato islamico la questione è ancora più grave e bisognerebbe anche prestare attenzione alle fonti che sostengono le sue attività terroristiche attraverso un più o meno chiaro appoggio politico, nonché tramite il commercio illegale di petrolio e la fornitura di armi e tecnologia.

È lecito l’uso della forza per fermare il cosiddetto Stato islamico?
Come è stato affermato anche nel comunicato finale, i partecipanti all’incontro hanno ribadito che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, sempre però nel rispetto del diritto internazionale. Quando il Santo Padre, rispondendo a una domanda dei giornalisti ha affermato che è lecito fermare l’aggressore ingiusto, ha precisato: «Sottolineo il verbo: fermare. Non dico bombardare, fare la guerra, ma fermarlo. I mezzi con i quali si possono fermare, dovranno essere valutati». Da parte mia ho voluto sviluppare alcune idee al riguardo nel mio recente discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite. In qualsiasi caso, come è stato ribadito nell’incontro, non si può affidare la risoluzione del problema alla sola risposta militare. Esso va affrontato più approfonditamente a partire dalle cause che ne sono all’origine e vengono sfruttate dall’ideologia fondamentalista. La comunità internazionale attraverso le Nazioni Unite e le strutture che si è data per simili emergenze dovrà agire per prevenire possibili genocidi e per assistere i numerosi rifugiati che rischiano una vita di stenti e una morte lenta ma certa. Nel caso specifico delle violazioni e degli abusi commessi dal cosiddetto Stato islamico sembra opportuno che gli Stati della regione siano direttamente coinvolti, assieme al resto della comunità internazionale, nelle azioni da intraprendere, con la consapevolezza che non si tratta di proteggere l’una o l’altra comunità religiosa o l’uno o l’altro gruppo etnico, ma persone che sono parte dell’unica famiglia umana e i cui diritti fondamentali sono sistematicamente violati.

E i leader religiosi?
I leader religiosi, ebrei, cristiani e musulmani, possono e debbono svolgere un ruolo fondamentale per favorire il dialogo tra le religioni e le culture, e l’educazione alla reciproca comprensione. Inoltre, essi devono denunciare chiaramente la strumentalizzazione della religione per giustificare la violenza. Nel caso concreto del cosiddetto Stato islamico una responsabilità particolare ricade sui leader musulmani non soltanto per sconfessare la sua pretesa di formare un califfato e di denominarsi “Stato islamico”, ma anche per condannare più in genere le pratiche indegne dell’uomo commesse dagli estremisti, come l’uccisione delle persone per il solo motivo della loro appartenenza religiosa. Come ha detto il Santo Padre in Albania: «Uccidere in nome di Dio è un grande sacrilegio! Discriminare in nome di Dio è inumano». Al riguardo vanno rilevate e apprezzate le espressioni di solidarietà con i cristiani e gli altri gruppi che soffrono in Iraq da parte di alcuni leader musulmani e responsabili politici islamici che hanno condannato l’operato dello Stato islamico. Esse meritano di essere incoraggiate. Come afferma un’imp ortante recente dichiarazione del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso: «La situazione drammatica dei cristiani, degli yazidi e di altre comunità religiose ed etniche numericamente minoritarie in Iraq esige una presa di posizione chiara e coraggiosa da parte dei responsabili religiosi, soprattutto musulmani, delle persone impegnate nel dialogo interreligioso e di tutte le persone di buona volontà. Tutti devono condannare unanimemente, senza alcuna ambiguità, questi crimini e denunciare la pratica di invocare la religione per giustificarli. Altrimenti quale credibilità avranno le religioni, i loro adepti e i loro capi? Quale credibilità potrebbe ancora avere il dialogo interreligioso ricercato con pazienza in questi ultimi anni?».

Come rispondere alla grave emergenza umanitaria nella regione?
È necessaria una rinnovata volontà di solidarietà da parte della comunità internazionale e delle sue strutture umanitarie per provvedere cibo, acqua, abitazione, educazione per i giovani, assistenza medica, per gli sfollati e rifugiati in tutto il Medio oriente. Le cifre del dramma umanitario sono sconvolgenti. In Siria, ad esempio, la metà della popolazione ha bisogno di assistenza umanitaria, per non parlare del dramma dei rifugiati, che si contano a milioni. E dietro ogni numero c’è una persona concreta che soffre, un nostro fratello che ha bisogno di aiuto. La Chiesa da parte sua cerca di dare il suo contributo, in particolare tramite le Caritas locali aiutate dalle diverse agenzie caritative cattoliche che assistono non solo i cristiani ma tutti quelli che soffrono, senza alcuna discriminazione. Al riguardo mi preme segnalare che l’assistenza umanitaria ai bisognosi può offrire anche una cornice di collaborazione tra cristiani e musulmani.

Cosa si può dire a chi soffre in Medio oriente?
A tutte le vittime di ingiustizie e di violenza i partecipanti all’incontro hanno assicurato la loro vicinanza spirituale e il loro impegno a sostenere ogni iniziativa pratica che porti alla riconciliazione e alla pace e assicuri i mezzi necessari per assistere chi è nel bisogno, fino all’auspicata normalizzazione della situazione nei Paesi interessati. Nello stesso tempo, essi hanno pregato e hanno riaffermato l’importanza di rivolgersi al Signore che solo può dare la vera pace. In particolare per i cristiani la parola di speranza non è altro che Gesù Cristo stesso, che ha vinto il male, il peccato e la morte e ci assicura che il male non ha mai l’ultima parola. Come dice l’esortazione post-sinodale Ecclesia in Medio Oriente , «i cristiani sanno che solo Gesù, essendo passato attraverso le tribolazioni e la morte per risuscitare, può portare la salvezza e la pace a tutti gli abitanti di questa regione del mondo» [n. 8]. Sento come una responsabilità di tutta la Chiesa sostenere con la preghiera e con ogni mezzo possibile i nostri fratelli cristiani che confessano la loro fede in Medio oriente e incoraggiarli a continuare a essere nelle loro terre una presenza significativa per il bene di tutta la società. E a tutti rivolgo un accorato appello: non dobbiamo dimenticare e non dobbiamo rassegnarci.

© Osservatore Romano - 11 ottobre 2014