Profezia di un cammino - pellegrinaggio - Terra Santa

pellegrini terra santa 03228c91806d798ba58a5c31f6ece696Dall’estate scorsa don Filippo Morlacchi, già direttore, presso il Vicariato di Roma, dell’Ufficio per la pastorale scolastica e l’insegnamento della religione, è stato chiamato a gestire la Casa Mater Misericordiae di Gerusalemme, sul monte degli Ulivi. Fondata per accogliere i

sacerdoti anziani del patriarcato di Gerusalemme dei latini,  la struttura si è progressivamente aperta
a religiosi, studenti, pellegrini. L’idea della diocesi di Roma, che ne ha assunto il rilancio, è di fare della casa (abitata da tempo da quattro religiose) un centro di fraternità e spiritualità per seminaristi. Ma potrebbe ospitare anche corsi per la formazione permanente del clero, attività per i diaconi, settimane di studio biblico-archeologico per i docenti di religione, incontri per l’accompagnamento e il discernimento vocazionale di giovani e gruppi parrocchiali. Non solo un centro d’accoglienza per pellegrini, dunque. Alla Mater Misericordiae (trenta stanze con cinquanta posti-letto, una cappellina, un refettorio, una biblioteca, una sala riunioni e un giardino) lo spazio non manca.

In questi giorni da tutte le regioni dell’India decine di milioni di credenti indù si sono radunati in pellegrinaggio presso le rive dei fiumi sacri per compiervi ancestrali riti di purificazione. Si attendono centotrenta milioni di pellegrini: numeri da record, che lasciano persino sconcertati, trattandosi di un evento di natura religiosa. Certo, si tratta di un mondo molto lontano dal nostro, in cui il fascino del divino e il ruolo sociale della religione sembrano non essere neppure sfiorati dalla secolarizzazione. Eppure anche il nostro mondo occidentale, all’apparenza guidato da dinamiche esclusivamente materiali e politico-economiche, conosce un’epoca di risveglio delle fedi e di rinnovata sete di spiritualità. Il disincanto del mondo (M. Weber, M. Gauchet) e l’eclissi del sacro (M. Buber, S. Acquaviva), se mai si sono davvero realizzati, sono alle nostre spalle. Forse non si tratta tanto di una rivincita di Dio (G. Kepel), quanto piuttosto dell’insopprimibile esigenza interiore di dare all’esistenza umana un significato che i beni materiali non riescono a fornire.

Ogni pellegrinaggio, prima ancora che manifestazione pubblica della fede religiosa, è simbolo di un cammino interiore, di una ricerca spirituale, di una sete primordiale dell’Assoluto. Quell’Assoluto di cui l’uomo, secondo l’intramontabile espressione di sant’Agostino, non può fare a meno senza condannare il suo cuore all’inquietudine e all’insoddisfazione (cfr. Confessiones, 1, 1).

La pratica del pellegrinaggio è presente, in vario modo, in tutte le religioni. Nel suo nucleo essenziale si tratta di un viaggio, spesso laborioso, intrapreso individualmente o collettivamente, per motivi penitenziali, di ricerca spirituale o di devozione, verso un santuario o altro luogo ritenuto sacro, ove si spera di raggiungere l’incontro con Dio o di ottenere qualche grazia. La sua dimensione pubblica e visibile lo rende un antidoto potente contro la dimensione soggettivistica e “liquida” che sembra dominare la religiosità postsecolare.

Il pellegrinaggio, anche quando sembra esprimere una ricerca elitaria e, per così dire, “di nicchia”, conserva sempre un tratto “popolare”, nel senso etimologico di “legato al popolo, alla gente semplice”. Così, ad esempio, la recente riscoperta del cammino di Santiago, severamente criticata da alcuni perché avrebbe trasformato l’originario cammino penitenziale presso la tomba di san Giacomo in un’avventura pseudospirituale, modaiola e terapeutica per manager stressati, vacanzieri sportivi o turisti distratti, conserva, nonostante tutto, il suo valore spirituale. Rimane infatti un cammino che si fa insieme, ricchi e poveri, semplici e istruiti, felici e infelici, tutti accomunati dalla consapevolezza di essere creature fragili e precarie, incompiute, perennemente in cammino. Ogni pellegrino osservando i propri compagni di strada si interroga sui misteriosi motivi che hanno indotto ciascuno a partire, e tutti, in fondo, sanno di esser parte della stessa umanità e di un unico popolo in cammino.

A volte purtroppo — occorre riconoscerlo — il confine tra autentico pellegrinaggio e semplice turismo religioso rimane incerto e la differenza alquanto sfumata. Ma una buona guida spirituale può trasformare anche il turista più superficiale in un autentico pellegrino.

Nella Bibbia la pratica del pellegrinaggio è ampiamente attestata. Gerusalemme, la città santa, è meta obbligata del pio israelita almeno nelle grandi feste di pellegrinaggio (pesach, shavuot e sukkot, cioè rispettivamente la pasqua, la pentecoste e la festa delle capanne). «Tre volte all’anno ogni tuo maschio si presenterà davanti al Signore, tuo Dio, nel luogo che egli avrà scelto: nella festa degli Azzimi, nella festa delle Settimane e nella festa delle Capanne» (Deuteronomio, 16, 16). E così insieme si parte verso Sion, per obbedire alla legge del Signore e per incontrarlo nel suo santo Tempio. «Quale gioia, quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore”. Già sono fermi i nostri piedi alle tue porte, Gerusalemme. […] È là che salgono le tribù, le tribù del Signore, secondo la legge d’Israele, per lodare il nome del Signore» (Salmi, 121/122, 1-24). Con la distruzione del secondo Tempio questa pratica di pellegrinaggio non è più obbligatoria, benché in tutti i figli di Israele il desiderio di celebrare le feste nella città santa sia più vivo che mai.

Nella nostra fede cristiana il pellegrinaggio ha assunto una connotazione più spirituale e simbolica. «La nostra cittadinanza [tò polìteuma hemôn] è nei cieli», scrive san Paolo (Filippesi, 3, 20); «non abbiamo quaggiù una città stabile, ma andiamo in cerca di quella futura» (Ebrei, 13, 14), la «nuova Gerusalemme» che scende «dal cielo, da Dio» (Apocalisse, 21, 2). Siamo «stranieri e pellegrini» [paroìkous kaì parepidêmous (1 Pietro, 2, 11): abitiamo in case transitorie e fra gente estranea], siamo di passaggio su questa terra e in cammino verso la nostra vera patria, che è il cielo. Pertanto tutta la vita cristiana assume i connotati di un pellegrinaggio. La comunità stessa è detta “Chiesa pellegrinante”, in attesa di congiungersi con la Chiesa gloriosa del cielo. Ne consegue che, secondo la fede cristiana, il pellegrinaggio nei luoghi di culto non è un obbligo (a differenza, per esempio, di quanto si verifica nell’islam con il precetto dello hajj, al quale il credente musulmano è assolutamente tenuto a sottomettersi). Nondimeno, la pratica di farsi pellegrini si è ampiamente conservata anche nel mondo cristiano, sia per il grande numero di santuari (principalmente quelli mariani, ma anche quelli legati alla figura dei santi), sia perché la dimensione simbolica e astratta dello status viae ha bisogno di esprimersi in segni concreti, come appunto il mettersi in cammino verso un luogo fisico.

Il pellegrinaggio cristiano per eccellenza è quello in Terra santa, per una motivazione evidente: consente di visitare i luoghi in cui è vissuto, morto e risorto il Signore Gesù. La storia ci tramanda i diari di viaggio di numerosi pellegrini che, nel corso dei secoli, hanno intrapreso il santo viaggio verso Gerusalemme. I loro affascinanti racconti ci riportano a epoche nelle quali il semplice arrivare alla meta poteva essere considerato un segno della benevolenza e della protezione divina. L’Itinerarium del cosiddetto pellegrino di Bordeaux (333-334 d. C.) o la Peregrinatio di Egeria (circa 383-384 d. C.) ci fanno sperimentare l’emozione di chi consapevolmente ha messo a repentaglio la propria vita per vedere con i propri occhi i luoghi della vita terrena del Signore Gesù. Le loro descrizioni delle antiche liturgie celebrate nella città santa e negli altri santuari o monasteri ci aiutano a conoscere meglio la storia di venerande tradizioni e ci fanno respirare ancora oggi il profumo di incenso di quelle preghiere. Ma ancora oggi chiunque vada pellegrino in Terra santa non può rimanere indifferente a questa esperienza: lo attestano numerose testimonianze di pellegrini occasionali, inizialmente distratti, poi sempre più coinvolti e infine trasformati dalla santità di quei luoghi.

La pratica del pellegrinaggio è una delle forme di preghiera comunitaria più sentite anche tra coloro che in Terra santa ci vivono. La Custodia di Terra santa è la struttura dei frati minori che, a partire dall’incontro di san Francesco con il sultano Melek al-Kamel avvenuto nel 1219, esattamente ottocento anni fa, custodisce i luoghi della Redenzione. I frati della Custodia organizzano regolarmente peregrinationes ai luoghi santi descritti nei vangeli e nelle sacre Scritture, e invitano a parteciparvi tutte le comunità cattoliche locali. Per la festa del battesimo del Signore, ad esempio, i cristiani di Gerusalemme e dintorni si sono recati in pellegrinaggio al Giordano, nella località di Qasr el-Yahud, tradizionalmente identificata come il luogo dove Gesù fu battezzato da Giovanni. Una festosa processione di religiosi, consacrate, sacerdoti, famiglie, laiche e laici ha raggiunto le sponde del fiume e poi ha celebrato la santa messa, nel corso della quale è stato proclamato il vangelo del battesimo di Gesù e amministrato il sacramento della rinascita ad alcuni fanciulli delle comunità parrocchiali presenti.

Successivamente il gruppo dei pellegrini si è recato al vicino monte della Quarantena, nel deserto di Giuda, a ovest di Gerico, nel luogo in cui si fa memoria delle tentazioni di Gesù: lì è stata proclamata la pericope evangelica che narra l’episodio delle tentazioni e si è fatta visita al locale monastero greco ortodosso. E così, in occasione delle diverse feste liturgiche, in Terra santa la celebrazione dei misteri della salvezza prende corpo nella visita orante ai luoghi che furono teatro di quegli eventi. Alla “storia della salvezza” si accompagna la “geografia della salvezza”; all’hodie della liturgia si accosta l’hic: qui, in questo luogo, il mistero si è compiuto. Qui, e non altrove.

È anche per questo motivo che la diocesi di Roma desidera intensificare la propria presenza nei luoghi santi e a Gerusalemme. Vivere nei luoghi in cui il Signore Gesù è vissuto non è espressione di curiosità o vanità spirituale, ma esprime il desiderio di conoscerlo meglio e di imitarlo più da vicino. L’imitazione è figlia, sorella e madre dell’amore, diceva il beato Charles de Foucauld. Per la formazione dei futuri sacerdoti, ma anche per la formazione permanente del clero, degli operatori pastorali e di ogni cristiano, non c’è nulla di più efficace che farsi pellegrini nei luoghi abitati da Gesù, e magari soffermarsi un po’ più a lungo di quanto non consenta il classico itinerario di una settimana. Ciò aiuta a vivere più in profondità e con più efficacia l’esperienza dell’imitazione del Signore. Non si tratta più, infatti, di conoscere astrattamente la distanza che separa, ad esempio, la casa di Marta, Maria e Lazzaro a Betania e l’orto degli ulivi: bisogna sentire nelle proprie gambe la fatica che Gesù faceva nel percorrere in salita e in discesa quelle alture. Occorre tornare più volte nei luoghi dove Gesù cercava la sua intimità con il Padre, per vivere la sua stessa solitudine, provare i suoi stessi sentimenti, immedesimarsi nella sua preghiera. Solo così la conoscenza del Signore diventa esperienza, la conoscenza dei luoghi santi non si limita allo studio geografico o archeologico ma diventa vera imitazione di Lui. Solo così la conoscenza delle Scritture diventa concreta e si fa luce al nostro cammino e incontro con il Risorto.

Per sviluppare questo progetto la diocesi di Roma ha inviato a tempo pieno un sacerdote (lo scrivente) per preparare il terreno e predisporre una struttura fisica a Gerusalemme nella quale i cristiani di Roma possano sentirsi a casa propria. Un tempo, infatti, i pellegrini giungevano ai luoghi santi in condizioni fisiche pessime, tanto che gli hospitales erano più luoghi di cura che di semplice ospitalità; oggi i pellegrini arrivano abbastanza comodamente, ma hanno bisogno di ambienti familiari e di accoglienza spirituale, nei quali sperimentare la comunione della comunità cristiana, la ricerca condivisa dell’incontro con il Maestro, la fraternità del cammino comune che facilita il viaggio verso l’uomo interiore, dove soltanto — è ancora sant’Agostino a ricordarcelo — abita la Verità. Perché ogni pellegrinaggio è, in fondo, metafora del viaggio, mai definitivamente compiuto, verso la Verità e verso l’Assoluto. In questo cammino non siamo soli: questa comunione è la Chiesa. Nella settimana di preghiera per l’unità dei cristiani, che stiamo celebrando, vale la pena ricordarlo. E vale la pena ritornare, almeno in pellegrinaggio spirituale, a Gerusalemme, che è la Chiesa madre di tutte le Chiese. Perché solo tornando qui — nel luogo dove si è compiuta la salvezza del mondo, dove è nata la missione della Chiesa, dove si è aperto il fossato con la comunità dei figli di Israele, dove le differenze fra le tradizioni cristiane sono più evidenti che mai, e dove ciascuna rivendica la propria fedeltà al Signore Gesù, dove i credenti di religioni diverse sono chiamati a confrontarsi e a convivere — solo tornando qui, dove tutto ha avuto inizio, si potrà camminare insieme verso l’unità. E di questo cammino ogni pellegrinaggio è profezia.

di Filippo Morlacchi

© Osservatore Romano  22.1.2019