Desiderio di pace tra i cattolici d’Israele

terra-santa3GERUSALEMME, 24. «La gente è molto addolorata e sconvolta dalle tante vittime sui due fronti. Nella messa li abbiamo ricordati ed abbiamo pregato per tutti coloro che soffrono». A parlare è don Gioele Salvaterra, parroco a Be'er Sheva, località israeliana non lontana dalla Striscia di Gaza. «Quello che possiamo fare — continua il sacerdote — è pregare perché cessino le violenze ed i soldati possano tornare a casa sani e salvi». Sono tanti gli israeliani che in questi giorni pregano per la fine delle ostilità. Da Haifa la locale comunità cattolica ha realizzato dei video e composto un canto per chiedere la pace. Mentre a Be'er Sheva, città tra le più colpite dalla pioggia di razzi, israeliani di fede cattolica partecipano, da cittadini, al dolore delle guerra e piangono i morti di una lista che si allunga ora dopo ora.
Numerose famiglie di Be'er Sheva, inoltre, sono composte da cristiani arabi della Galilea che vivono qui. Donne e bambini, dopo la prima settimana di guerra, si sono rifugiati nei villaggi di origine, mentre mariti e padri sono rimasti in città a lavorare. C’è chi riesce a raccontare come si vive in un situazione di guerra. Già nei primi giorni del conflitto, Salma e Habib, fratelli adolescenti, dicevano di non avere «voglia di un’altra guerra», ricordando che i progetti per le vacanze estive appena cominciate erano ben diversi. Per loro è la terza guerra che vivono negli ultimi sei anni, senza considerare i lanci di missili occasionali tra un'operazione militare e l'altra. Anche i loro genitori sono molto preoccupati per quanto accade, soprattutto quando i figli sono fuori di casa, per strada: con telefonate ed sms si informano costantemente sulle loro condizioni. In generale, spiega ancora don Gioele Salvaterra all’agenzia Sir, «i ragazzi hanno bisogno di raccontare ciò che vivono tra le emozioni di quella che all'inizio pare un’avventura e la paura: la sirena che suona, la corsa al rifugio, dove si incontrano i vicini di casa, lo scoppio del missile intercettato o quello ancora più forte del missile che cade nelle vicinanze. Ai racconti di oggi si uniscono quelli del passato. «Una volta un missile è caduto vicino alla mia scuola», ricorda Katy. Anche i più piccoli risentono della situazione e il suono delle sirene unito all'agitazione dei genitori porta i bambini a scoppi di pianti e urla. «Sono stata alcuni giorni a trovare la mia famiglia in Galilea — racconta Marian — e mia figlia di tre anni raccontava a tutti quello che aveva vissuto nei giorni precedenti». Nella comunità cattolica di Be'er Sheva ci sono anche diversi migranti dall'India e dalle Filippine, che lavorano come badanti. In tempo di guerra il loro lavoro è ancora più duro, dovendo trovare un riparo sicuro per i loro malati. «La signora che assisto — racconta una di loro — ha paura e non vuole che esca di casa per fare la spesa o venire a messa». La comunità continua però a radunarsi per la preghiera, che già da diversi giorni si tiene in una zona riparata della casa e non nella cappella. Al centro della preghiera è la supplica per la pace, per il bene di tutti. «Le parabole che ascoltiamo in queste domeniche — dice don Salvaterra — invitano tutti ad avere speranza e a essere fiduciosi che il piccolo seme di pace, piantato nella recente visita del Papa e nel successivo momento di preghiera con i leader dei due popoli, possa portare frutto».

© Osservatore Romano - 25 luglio 2014