Tra terreno e divino

Solitudine Marc Chagalldi Anna Foa

Il silenzio di Dio comincia per Chagall nel 1933. Già in un suo dipinto di quell’anno, che vede l’ascesa al potere di Hitler, Solitudine, ritroviamo i temi delle grandi opere successive, fino alla Shoah, dalla Caduta dell’angelo alla Crocefissione bianca.
Ed è appunto Solitudine al cuore dell’ultimo studio, uscito in Francia (Chagall. Solitude et mélancolie, 1933-1945, Paris, L’Echoppe, 2015, pagine 116, euro 18,90) che Marcello Massenzio, raffinato studioso di storia delle religioni e antropologo, dedica a Chagall, facendo seguito a un’altra sua importante opera del 2006, La passione secondo l’ebreo errante. E come in quella, anche qui troviamo centrale il rapporto tra il tempo, le contingenze della storia, e la poesia, l’arte, l’emozione. L’analisi di Massenzio, collocata al confine tra antropologia, arte e storia, ci porta a interrogarci sulla frattura tra tempo e spazio, su quella che Massenzio chiama la comunicazione interrotta tra il mondo terreno e il mondo celeste. L’elemento chiave di questa riflessione è una figura che appare in moltissime delle opere di Chagall, quella dell’ebreo errante. Come Massenzio ha suggerito in precedenza, l’ebreo errante, già figura dell’antigiudaismo cristiano medioevale e della prima età moderna, ebreo punito con l’eterno vagabondare per le sue colpe verso il Cristo, subisce dopo l’Emancipazione e in particolare nelle opere di Chagall una totale metamorfosi, divenendo il simbolo dell’ebreo che fugge i pogroms recando sulle spalle nel sacco tutto il suo patrimonio culturale. In questa metamorfosi dal negativo al positivo, l’ebreo errante assume per il pittore una valenza particolare negli anni dell’antisemitismo nazista e poi della Shoah, e viene accostato a un suo vero e proprio doppio simbolico, la figura dell’e b re o che stringe i rotoli della Torah e, in misura meno evidente, quella della madre che stringe a sé il suo bambino. In Solitudine, l’ebreo che serra a sé i rotoli della Torah non fugge, ma è seduto a terra, avvolto nel suo taled, lo scialle di preghiera. Accanto a lui una mucca suona il violino, quasi a consolarlo della sua tristezza, mentre dietro di lui un angelo si allontana, a significare l’abbandono di Dio, la solitudine a cui l’ebreo è lasciato. È l’immagine stessa della melanconia, ci dice Massenzio, collegandolo al San Giovanni Battista nel deserto del pittore fiammingo Gérard de Saint Jean in cui il Battista è seduto a terra nella stessa posizione, simile anche a quella, di poco successiva, della Melencolia I di Dürer. Il quadro era esposto a Berlino, al Kaiser Friedrich Museum, e Chagall deve averlo visto là. Ma è questa la prima volta in cui nelle opere di Chagall l’ebreo con i rotoli della Torah appare seduto, quasi accasciato, in un’immagine di profonda tristezza. Che cosa rappresenta questo cambiamento, nell’iconografia di Chagall, dalla posizione di fuga o comunque in piedi (come in Apparizione , del 1917-18, in La caduta dell’angelo e in molte altre opere) a quella accasciata a terra? La rilettura che Chagall fa della figura dell’ebreo errante (o se preferiamo dell’ebreo che mette in salvo i rotoli della Torah) è un altro tassello, ci dice Massenzio, della riappropriazione di questo mito antisemita da parte della cultura ebraica. Il richiamo al modello del santo eremita ci suggerisce l’accidia, figura complessa di tristezza, melanconia, alienazione, ricerca frustrata del conforto di Dio. E l’angelo che fugge lontano ci riporta alla separazione fra l’universo divino e quello terreno. Tutto questo nel terribile 1933 in cui Hitler sale al potere. La storia si ammanta di miti, trasforma e crea miti. Miti che, suggerisce Massenzio appoggiandosi a una suggestione dello storico Y. C. Yerushalmi, hanno anche la funzione di addomesticare attraverso un linguaggio antico il nuovo mostruoso che emerge. Mito e storia, terreno e divino, poesia e realtà. L’intreccio appare, nella rilettura di queste opere di Chagall, quanto mai complesso. È La crocefissione bianca, La caduta dell’angelo con l’orologio spezzato a simboleggiare il tempo che si è interrotto, il Rabbino, portato in un giro derisorio e infamante dai nazisti a Mannheim, preludio alla messa al bando dell’«arte degenerata». Ma c’è un altro momento dell’arte di Chagall che Massenzio analizza, quasi a chiudere il cerchio di questa riflessione sul rapporto tra storia e simboli: è il quadro del 1937, Rivoluzione, una “pittura storica” realizzata per il ventennale della Rivoluzione russa. Questa immagine di Chagall della rivoluzione è quanto meno inconsueta, e certo non avrebbe potuto essere realizzata se Chagall, che se ne era andato nel 1923, fosse ancora stato nell’Urss comunista. Al centro del quadro, infatti, è un Lenin rovesciato, a testa in giù, che si regge in equilibrio con una mano su un tavolo e con l’altra indica una bandiera rossa. Il quadro è diviso nettamente in due parti, a simboleggiare la rottura temporale: da una parte una gran folla, cioè la Rivoluzione, dall’altra uno spazio poco affollato. In basso, l’e b re o errante col suo sacco. A fianco di Lenin, seduto, l’ebreo con i rotoli della Torah. Disincanto, malinconia. Se Solitudine è il quadro storico dell’avvento del nazismo, questo è quello della fine del sogno comunista. Sono gli anni delle grandi purghe staliniane, del Te r ro re . Si tratta di un libro denso di stimoli, di aperture, di riflessioni, e la breve sintesi che ne abbiamo dato è del tutto insufficiente a rappresentarne la ricchezza. Bisogna entrarvi dentro e farsi trasportare dalle parole, evocando le immagini e i colori di Chagall, e svolazzando, come Chagall, fra la storia e la poesia.

© Osservatore Romano - 11 novembre 2016